C’è una epidemia in corso della quale tuttavia non ci accorgiamo. Il contagio ribalza da una casa all’altra, da una via all’altra, da un quartiere all’altro, invadendo tutto. Il virus che la determina si chiama “solitudine”. Quella solitudine che, come ha lasciato scritto il sedicenne che si è lanciato qualche giorno fa dalla finestra per farla finita una volta per tutte, “ammazza”. Quindi, è di lei la colpa, ossia “è stata lei ad uccidermi, non io”, questo il messaggio dell’adolescente, che è anche un monito per la società intera. È avvenuto a Genova, dove neppure un mese fa in una stessa notte, quella tra il 12 e il 13 aprile, due ragazze, una di quattordici e l’altra di ventuno anni, a poche ore e a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, si sono tolte la vita sempre facendosi precipitare nel vuoto. Nel prospero Occidente il suicidio rappresenta la seconda causa di morte tra i giovani di età compresa tra i quindici e i ventinove anni. Questi dati, forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, risalgono al periodo antecedente alla pandemia che ha sconvolto il globo tutto ma, in particolare, le società occidentali, le quali non avevano mai fatto i conti, o meglio, non facevano i conti da cent’anni, con un virus altamente contagioso e pernicioso, dunque si sentivano scioccamente forti, sicure, inarrestabili, invincibili. Invece no. È bastato che giungesse un microscopico e invisibile nemico perché le nostre esistenze venissero ribaltate e distrutte, le nostre corse contro il tempo bruscamente stoppate, i nostri usi rivoluzionati, le nostre tradizioni, perfino quelle più sacre e millenarie, deposte. Naturale che ciò destabilizzi chiunque, soprattutto coloro che sono più fragili, ovvero i fanciulli, ma non soltanto questi. Ad ogni modo, con l’avvento del coronavirus si stima che i suicidi e tentativi di suicidio tra i giovani siano aumentati in maniera considerevole in Italia così come altrove. Soprattutto dalla seconda ondata in poi, dall’ottobre del 2020 ad oggi sono lievitati del 30% i tentativi di autolesionismo e di suicidio da parte di adolescenti (Fondazione Cesvi). È la spia di un evidente e profondo malessere che deriva dall’isolamento a cui siamo stati costretti da un anno e due mesi a questa parte. La chiusura delle scuole così come delle palestre e dei centri ricreativi, l’impossibilità di riunirsi, di festeggiare un compleanno, di vedere gli amici, di confrontarsi, il divieto di abbracciarsi e l’obbligo di mantenere le distanze gli uni dagli altri allo scopo di tutelarsi da quello che è stato descritto come un terribile morbo di cui i ragazzi stessi sarebbero formidabili vettori, in grado di infettare genitori e nonni provocandone il trapasso, hanno inciso negativamente sullo stato emotivo e mentale di bambini e adolescenti, imprigionati tra le mura domestiche dalle quali molti di loro adesso non vogliono più sbucare fuori, poiché soltanto lì, tra le pareti delle loro camerette, si percepiscono al sicuro rispetto ad un mondo esterno minaccioso e pieno di limiti. Insomma, babbo e mamma ora sono alle prese con figli che di casa non intendono uscire più. Che fatica convincerli a fare una passeggiata! Sono gli effetti e i postumi di politiche rigide e fredde che hanno avuto come unico obiettivo il contenimento del contagio da coronavirus, peraltro con risultati discutibili e scadenti, e non hanno considerato che non ci si ammala solamente di Covid e che uno Stato il quale eleva il diritto costituzionale alla Salute al di sopra addirittura degli altri diritti costituzionali, ossia di pari rango, come quello al lavoro, all’istruzione, di movimento, finisce – paradossalmente – con il produrre danni, talvolta irreversibili, alla salute medesima. Drammatico è il fatto che i contraccolpi più devastanti verranno a galla soltanto al termine della pandemia.

E poi c’è una ulteriore problematica: le misure poste in essere per arginare la pestilenza hanno incrementato conflittualità e malessere mentale all’interno delle famiglie di tutte le classi sociali e ciò ha a sua volta accresciuto il rischio di maltrattamento, in particolare nei confronti dei soggetti più vulnerabili, quindi dei minori. La riduzione dei contatti sociali e la prolungata sigillatura degli istituti scolastici hanno reso impossibile persino chiedere aiuto, o che individui esterni rispetto al nucleo familiare si accorgano del disagio del fanciullo, il quale praticamente si ritrova isolato e privo di protezione. Esiste solitudine più profonda di questa? Ed ecco che il suicido diventa – per troppi – uno strumento per liberarsi da una condizione insopportabilmente penosa e soffocante che non sembra avere via d’uscita.

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