Siamo in pieno Stato etico: i conduttori televisivi impartiscono la morale, pretendendo di innalzare al ruolo di educatore del popolo un reality-show, in cui peraltro l’occhio dello spettatore suo malgrado incappa in pieno giorno in immagini che faremmo volentieri a meno di vedere, come nudi integrali. Il cantante Fausto Leali è stato espulso dal Grande Fratello Vip, programma di Canale5 condotto dal giornalista Alfonso Signorini, non per avere espresso un giudizio negativo sulle persone dalle pelle scura, comportamento che sarebbe stato senz’altro da condannare, bensì per avere affermato che “nero è un colore e negro invece una razza”. Si configura così una evidente sproporzione tra colpa e sanzione. Non sarebbe stata sufficiente una ammonizione? Insomma, era proprio necessario sbattere fuori dalla casa l’uomo con l’ingiusto marchio di razzista?
Eppure il cantante ha addirittura detto il vero. Come ha spiegato nell’aprile del 2006 il docente universitario di Storia della lingua italiana e Sociolinguistica Federico Faloppa sulle pagine del numero 43 di “La Crusca per voi”, foglio semestrale dedicato agli amatori della lingua e curato dall’Accademia della Crusca, punto di riferimento per le ricerche sulla lingua italiana, “fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore sono stati usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili”. Dunque fino a qualche decennio fa, nell’epoca in cui è nato e cresciuto nonché ha vissuto Leali, non vi era insito alcun intento denigratorio nel termine “negro”, come dimostra il successo in Italia di canzoni in cui codesto vocabolo è ripetuto frequentemente. “Negro, tra i tre termini (ossia nero, negro e di colore), era certamente quello più storicamente attestato, più semanticamente pregnante. Tradizionalmente, identificava una presunta “razza” (la “razza negra”, o “i negri”, appunto) a cui nei secoli erano state attribuite precise e specifiche caratteristiche”, continua Faloppa.
Nel film del 1967 “Indovina chi viene a cena” una ragazza bianca di una facoltosa famiglia di San Francisco si innamora di uno stimato medico afroamericano ed i due decidono di convolare a nozze dopo dieci giorni dal primo incontro, non senza prima superare qualche resistenza da parte delle famiglie di entrambi, preoccupate per i pregiudizi che i giovani dovranno affrontare. La fanciulla non si fa problemi nell’affermare che l’uomo che ama è “negro” e pure questi utilizza nei confronti di se stesso codesto termine, segno che questa parola non era ritenuta affatto “ingiuriosa”, proprio come non la considera offensiva Leali. Il film ebbe un successo planetario e ancora oggi è un classico intramontabile del cinema.
Dunque, negli anni Sessanta, Settanta e pure Ottanta non destava scandalo l’impiego della parola “negro” né coloro che la adoperavano intendevano conferirle una valenza insultante. “Negro negli anni Ottanta poteva essere usato – con pretesa di neutralità – dai più importanti media nazionali in relazione al fenomeno dell’immigrazione, e alla crescente presenza, in Italia, di immigrati provenienti – in prevalenza – dall’Africa, e quindi “negri” o “neri” per definizione”, sottolinea Faloppa, il quale riporta nel suo contributo scientifico un frammento di un articolo tratto dal settimanale “Epoca” del 13 dicembre 1987, in cui si legge che “il 24 per cento degli italiani non vorrebbe avere una relazione sentimentale con un negro…”. Nessuno si indignò. Nessuno pretese il licenziamento dell’autore del pezzo. Nessuno attaccò la testata e non si innescò alcuna polemica nazionale. Quindi alle soglie degli anni Novanta, neanche tanto tempo fa, chi diceva o scriveva “negro” non rischiava il linciaggio né l’ostracizzazione.
Allora quando è accaduto che siamo peggiorati avviando l’accanita guerra, che ancora combattiamo, contro determinate parole e chi se ne serve?
Faloppa puntualizza che “qualcosa cambiò con l’inizio degli anni Novanta, quando importammo il dibattito sul “politicamente corretto” dai Paesi anglosassoni”. Fu da quel momento che si avvertì l’esigenza formale di prescrizioni lessicali, ossia di regolare il ricorso a specifici termini secondo convenzioni sociali, e fu conferito ufficialmente un valore discriminate ad alcuni sostantivi un attimo prima innocenti, come appunto “negro”, nome che tuttora per persone della generazione di Fausto Leali non rappresenta affatto un improperio.
Siamo d’accordo con Faloppa: “Sarebbe bene – come sempre in fatto di lingua – non prescindere dai contesti, dalle intenzioni del parlante, o dai tratti sovrasegmentali (come l’intonazione). Ed evitare, in ogni caso, tentazioni censorie o posizioni isteriche”. A tal proposito, l’esperto racconta una fatto realmente accaduto: un giorno in piscina un tizio sentì un ragazzino che urlava con insistenza “negro, negro”, gli si avvicinò scandalizzato allo scopo di rimproverarlo, e il giovanotto costernato replicò: “Ma sto chiamando il mio amico: si chiama Negro di cognome”.