Esiste un grande e ingiustificato assente nell’ambito della vicenda Genovese. Da un lato, abbiamo un imprenditore milionario di 43 anni, accusato di stupro, lesioni, spaccio e sequestro di persona, il quale è solito organizzare festini considerati ultra-esclusivi da soggetti mediamente sfigati e infelici come lui; dall’altro, la sua vittima, una modella diciottenne che insieme alle sue amiche, tutte coetanee, ambisce a frequentare e di fatto frequenta certi party e che, con polsi e caviglie legati, è stata tenuta in ostaggio nella camera da letto del tizio, con tanto di bodyguard piantonato davanti alla porta.

Poi c’è il contorno, quello composto da scoloriti personaggi secondari e comparse che popolavano quelle serate e che nulla hanno fatto per la diciottenne, interessati soltanto a sballarsi e rincasare satolli di droghe e alcol all’alba inoltrata. Persino le compagne della vittima, essendosi accorte che questa era rimasta con Genovese, l’hanno abbandonata, nonostante sapessero – per loro stessa ammissione – che l’uomo fosse strafatto e avesse perversioni sessuali sadomaso (cosa nota, esse specificano) nonché risultasse quantomeno preoccupante che la guardia del corpo dell’indagato impedisse loro di accertarsi delle condizioni della ragazza, di vederla e salutarla.

Manca in questa squallida e triste faccenda la famiglia, e non ci riferiamo esclusivamente al nucleo familiare della giovane che ha denunciato Genovese, bensì alla famiglia in senso lato, incluse quelle delle amichette dell’abusata. Non si è udito un padre, non si è udita una madre, non è emerso un accenno ad un qualche genitore che abbia chiamato la diciottenne, rimasta nell’attico di Genovese ben 20 ore, ossia quasi un giorno intero, senza che i familiari si domandassero: “Che diavolo di fine ha fatto nostra figlia?”.

Sembra quasi che codeste donne in erba, le quali con una disinvoltura impressionante raccontano di essere “frequentatrici abituali di queste normali (sic!) feste a base di sesso e droga, finalizzate a fare sesso sotto l’effetto di stupefacenti”, siano figlie di nessuno, senza nessuno alle spalle. Sono appena maggiorenni eppure parlano come fossero adulte e come adulte non sono supervisionate, salvaguardate, controllate e protette da chi le ha messe al mondo. Se queste giovanissime ritengono “normali” le festicciole in cui gli ingredienti principali sono le droghe pesanti e il sesso estremo, come se descrivessero serate in pizzeria tra compagne di scuola, evidentemente nessuno ha spiegato loro che non vi è nulla di “normale” in questo genere di passatempi.

La crisi dell’istituto familiare ha reso i nostri ragazzi terribilmente soli. Questa solitudine li imprigiona e allo stesso tempo li rende esposti e vulnerabili, li pone alla mercé di chiunque. Se prima essi erano soli, ma almeno insieme “nel gruppo”, adesso persino il gruppo si è disgregato. Esso sussiste meramente in funzione del divertimento, sempre più distruttivo e autodistruttivo, non in funzione del sostegno reciproco. È l’apoteosi dell’individualismo nelle sue forme più malate. Ed è raccapricciante ascoltare una delle amiche della accusatrice di Genovese dichiarare che quest’ultima fosse a conoscenza delle inclinazioni sessuali dell’imprenditore e di cosa avvenisse nel corso di quelle nottate in terrazza, aggiungendo di non avere preso sul serio la narrazione della amica il giorno seguente in quanto “quel tipo di droghe producono allucinazioni”.

Sorge il sospetto, sentendo l’intervista rilasciata ai giornalisti di Mediaset, che questa testimone sia quasi stizzita con la vittima, la quale recandosi dalla polizia ha messo fine alla pacchia rappresentata da chilogrammi di cocaina gratis per tutti, fiumi di champagne, lussuosi party e così via.

Il fatto che Genovese sia un soggetto pericoloso, criminale, losco e chi più ne ha più ne metta, non esime le famiglie dalle proprie responsabilità: hanno dato alla luce questi fanciulli ma li hanno lasciati nelle tenebre. Senza strumenti, senza difese. Tragicamente da soli.

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