Li chiamiamo “bamboccioni” e “mammoni”, ci lamentiamo del fatto che si comportano da eterni adolescenti pure quando entrano negli anta, ché di riuscire a schiodarli dalla casa dei genitori, più confortevole di un hotel 5 stelle, non se ne parla. Troppo comodo campare sugli altri, come fanno i parassiti. Eppure se tanti giovani italiani non diventano maturi mai e rinviano sine die decisioni e responsabilità, come quella di pagarsi da soli le bollette, la colpa è soprattutto degli adulti e di una società che, invece di favorirne la crescita, li preserva e li coccola e li giustifica e li pasce, trasformandoli in pappemolli: da soli sono persi e hanno difficoltà persino ad accendere un fornello per cucinare un uovo al tegamino.
Codesta mentalità tipicamente italiana è talmente interiorizzata e sedimentata che conduce addirittura a sentenze che fanno accapponare la pelle a chi conserva miracolosamente un minimo di buonsenso. È accaduto a Torino: un padre, il quale si è dichiarato nullatenente e attualmente risulta addirittura disoccupato, è stato condannato a due mesi di galera per avere smesso da qualche annetto di versare ogni mese alla figlia, la quale ha un lavoretto, la somma di 258 euro. È stata la donna, che non è mica una bimbetta, avendo 33 anni e nessuna disabilità che la renda inabile alla fatica, a denunciare il babbo nel 2014, specificando che l’uomo aveva smesso di contribuire al suo sostentamento dal 2012, ossia quando la signorina era ventiseienne.
La domanda sorge spontanea: ma a 33 anni, come a 26 del resto, non è il caso di smetterla di pretendere le poppate e la paghetta da chi ci ha messi al mondo? Insomma, fino a quando su un padre ed una madre grava il dovere di provvedere materialmente ai discendenti e, soprattutto, è accettabile che codesto obbligo si protragga a vita, pure allorché il figlio diventa adulto ed il genitore versa in grave difficoltà economica, pena il ritrovarsi in gattabuia? Quando anche un tribunale riconosce ad un uomo ed una donna in buona salute e sopra i trent’anni il diritto di ricevere un assegno dal padre, si legittima, si appoggia e si avalla un atteggiamento di parassitismo sociale, il quale induce il soggetto a non darsi da fare per la propria esistenza e il proprio futuro, poiché tanto tocca a coloro che lo hanno concepito di provvedere al suo benessere, riempirgli il frigo e soddisfare i suoi capricci.
Ecco perché la sentenza del tribunale di Torino, a nostro avviso, è fortemente diseducativa non solo per la diretta interessata il cui babbo, secondo la giustizia, dovrà finire in cella alla stregua di un criminale, bensì per generazioni di giovani che, invece di essere riconoscenti a genitori che ne finanziano studi e passatempi, con arroganza esigeranno tutto ciò che ritengono sia loro dovuto e non fino alla laurea e all’inserimento lavorativo ma persino ben oltre. Una sentenza infatti crea un precedente, fa giurisprudenza, incide sui costumi, sulla civiltà, talvolta peggiorandola, anziché migliorandola come sarebbe opportuno.
Insomma, stiamo allevando degli inetti e la nostra unica preoccupazione è come rendere loro l’esistenza ancora più comoda. In questa smania collettiva di autoflagellazione ed autocolpevolizzazione che ha preso gli italiani si è affermata la visione distorta in base alla quale se ai giovanotti mancano lavoro ed opportunità la responsabilità è delle vecchie generazioni, le quali devono pagare, anzi devono essere punite. Come in questo caso: il babbo merita la prigione, la figlia trentatreenne l’assegno. Nessuno osa dire a quest’ultima: “Sei abbastanza grande per provvedere da sola a te stessa”. I giudici ci spieghino almeno fino a quale età corre l’obbligo di mantenere la prole che potrebbe benissimo essere autosufficiente se solo la smettesse di contare sulla “borsetta di mammà” e si rimboccasse le maniche.
Purtroppo qui c’è in ballo qualcosa di molto più importante dei 200 o dei 300 euro mensili per mangiare. È in gioco la dignità della persona. E per la tutela di codesto decoro la faccenda familiare non sarebbe dovuta arrivare in aula. Invece di pagare gli avvocati e perseguitare il padre, buono o cattivo che sia stato, per ottenerne i denari, l’agguerrita signora avrebbe fatto meglio a conservare l’orgoglio e ad adoperarsi per incrementare da sé le proprie entrate, qualora reputate insufficienti. I genitori ci hanno donato la vita, non succhiamogli il sangue.
Articolo pubblicato su Libero il 19 dicembre del 2019