I nostri ritmi accelerati si sono bruscamente interrotti lo scorso marzo a causa dell’epidemia e delle misure volte al contenimento del contagio. Abbiamo trascorso, nostro malgrado, settimane e settimane agli arresti domiciliari, in attesa di potere tornare a mettere il naso fuori dall’uscio in libertà, e ora che potremmo uscire preferiamo starcene tra le mura domestiche, tanto che ristoranti, bar e pub restano semivuoti.
Insomma, il Covid-19 ci ha guariti dalla “febbre del sabato sera” e ci siamo improvvisamente scoperti stanchi delle notti brave passate sulle piste di discoteche affollate (che peraltro restano sigillate) appiccicati come sardine, stufi di rincasare alle 4 del mattino barcollanti nonché di risvegliarci storditi e con l’emicrania, mormorando: “Mai più!”.
Stiamo riscoprendo tutti, chi più chi meno, giovanissimi e meno giovani, il piacere dello stare in casa, ambiente in cui prima della pandemia permanevamo poco più di un terzo della giornata, giusto il tempo di dormire.
Non uscire è la tendenza del momento, complici i programmi di cucina, che ci stimolano a sperimentare sempre nuove ricette per noi stessi e per gli amici, ma anche il food delivery, che ci permette di venderci consegnati a domicilio sia la classica pizza che piatti più raffinati o etnici; internet, che ci consente di lavorare da casa; lo shopping online, grazie al quale possiamo fare acquisti senza muoverci dal nostro divano; le serie televisive, che ci incatenano davanti alla tv.
I social network, inoltre, ci mettono in contatto in tempo reale con il mondo esterno, tanto che non ci serve essere in un luogo preciso per vedere e sapere in diretta cosa lì stia accadendo. È una sorta di ubiquità: siamo ovunque pur permanendo nella nostra stanza, partecipiamo ad ogni evento pur restando assenti. Per farci presenti ci basta postare una foto, o fare un commento, mentre a letto ci giriamo sull’altro fianco.
Si dice che la moda dello stare in panciolle a casa sia nata in Danimarca e che i danesi siano il popolo più felice del mondo, secondo le ultime statistiche, proprio perché invece di mettersi in ghingheri il sabato sera al fine di andare in giro per i locali più trendy, preferiscano tapparsi nella propria dimora con pigiama, piumone, candele, tv, libri, o amici più cari. Per riassumere questo concetto di intimità e vita domestica i danesi usano il termine “hygge”, che significa appunto “stare bene”.
Per godersi la vita non serve andare fuori, cercare il divertimento sfrenato, fare le ore piccole, scatenarsi al ritmo della disco-music, tutto ciò che ci occorre è a portata di mano, e non si tratta solo del telecomando. Solo nel calore del proprio habitat casalingo l’individuo può entrare in contatto con se stesso, lasciando al di là della porta stress, fatica, scadenze, preoccupazioni.
La casa diventa così una sorta di confort-zone, una zona franca in cui rifugiarsi e sentirsi al sicuro, un posto nel quale fare accedere le persone più care, coloro che meritano la nostra fiducia e il nostro amore.
In fondo, si tratta di un revival degli anni ’50 e ’60, quando andavano tanto di moda le feste in casa. I locali allora non esistevano, ad eccezione di pochi cinema in cui scambiarsi qualche tenerezza contando sulla complicità del buio. Ci si ritrovava e ci si riuniva nelle abitazioni private, si bevevano cedrata e limonata, si ballavano i lenti guancia a guancia e ci si emozionava. In quei decenni d’oro, fatti di semplicità e genuina allegria, non solo i bambini, ma anche gli amori nascevano in casa, e le passioni non venivano bruciate e consumate nel giro di una notte.
Colpa della pigrizia? Retaggi della quarantena? Residui di paura del virus, timore fortificato da una stampa che continua a tenere altissimo l’allarme? O forse è solo la nostalgia nei confronti di un’epoca ormai lontana a farci preferire un weekend casalingo ad uno di bagordi, la lentezza all’alta velocità. Sono i corsi ed i ricorsi storici.
Tornerà la smania di gettarsi nella folla, di vivere folli notti da leoni, di appendere al chiodo le pantofole rispolverando le scarpe da ballo, ed i genitori urleranno ancora e sempre ai propri figli: “Questo non è un albergo!”. Il divertimento, in fondo, non nuoce. Basta non strafare.