Su 60 milioni e mezzo sono 8,5 milioni gli italiani che vivono da soli. Vedovi (40%), separati (21%), celibi o nubili (39%). Non soltanto anziani che si ritrovano in case diventate vuote dopo la perdita del congiunto a la crescita dei figli andati da un pezzo per la loro strada, ma anche una moltitudine di giovani, trentenni e quarantenni i quali hanno smesso di cercare l’amore eppure, sotto sotto, mantengono la flebile speranza di imbattersi nella propria dolce metà. Molte di queste persone, abituate ai vantaggi che il non avere coinquilini comporta, in verità, non disdegnano la condizione dello stare da soli, che consente di godere di un’ampia libertà. A pesare semmai è quel sentimento che sgorga dal cuore e talvolta lo stringe come in una morsa: il sentirsi soli in modo addirittura universale ed assoluto.
La solitudine è il grande male della nostra società iper-connessa, iper-tecnologica, iper-social: possiamo ritrovare i vecchi compagni di scuola su Facebook, stringere ogni giorno decine di amicizie virtuali, comunicare da una parte all’altra del pianeta, eppure non conosciamo i nomi dei nostri vicini di appartamento e facciamo parte di famiglie mononucleari composte da noi stessi e, al massimo, dal nostro gatto, pure lui poco loquace. E questo esistere appartati tende ad approfondirsi: nel 2011 gli individui senza compagnia erano 7 milioni e mezzo, nel 1971 appena 2 milioni. I nuclei familiari si disgregano, le relazioni diventano sempre più liquide, le unioni tra uomo e donna sempre più estemporanee, ci si prende e un attimo dopo ci si molla già stufi, non si fanno più figli, emerge l’individualismo come culto ufficiale di una comunità in cui coloro che la compongono si incrociano di continuo eppure non si incontrano mai. Neanche si guardano in faccia, osservano il display dello smartphone. Se prima condividevamo la casa, i pasti, le emozioni, i pensieri, oggi condividiamo twitt, autoscatti in cui l’unico soggetto ritratto siamo noi stessi, fotografie di oggetti, cibi e status-symbol.
Abbiamo voluto la bicicletta e ora ci tocca pedalare. Poiché questa nostra libertà l’abbiamo pretesa, rivendicata, urlata come una vittoria, un traguardo, un diritto che nessuno avrebbe mai potuto negarci, eppure ora ci dà quasi noia, ci è divenuta insopportabile, ci sta stretta come una camicia di forza. Soprattutto in questo periodo dell’anno, dedicato agli affetti, ai familiari, all’amore, alle riunioni casalinghe con gli amici. È proprio ora che l’essere soli si deforma in solitudine. Succede a dicembre e succede pure ad agosto. Sono queste le fasi in cui i quasi 9 milioni di abitanti della penisola che non hanno nessuno con cui dividere il letto e la tavola soffrono maggiormente: il lavoro si allenta, le città si svuotano, gli impegni diminuiscono e all’improvviso ci si accorge di non avere nessuno con cui parlare, con cui trascorrere il Natale, con cui ridere o anche piangere. Intorno al ferragosto e a Natale i volontari di Telefono Amico Italia, organizzazione che dal 1967 dà ascolto a chiunque provi desolazione, angoscia, tristezza, sconforto o rabbia, ricevono più chiamate da parte di maschi e femmine di ogni età, tra cui moltissimi manager, i quali patiscono la mancanza di qualcuno accanto. Nel corso del 2018 Telefono Amico Italia ha raccolto circa 50 mila richieste di sostegno. Le regioni da cui arrivano più telefonate e dove quindi è più avvertita la solitudine sono proprio le più ricche: Piemonte (8627), Lombardia (7558), Veneto (5880) e Lazio (2418). Da Milano, in particolare, circa 2700 chiamate; da Roma quasi 2 mila. Nel più povero Mezzogiorno, in cui resistono il valore della famiglia e le tradizioni che conducono i parenti a riunirsi soprattutto in occasione delle festività natalizie, l’individuo si percepisce meno abbandonato. La rete sociale permane e non è solamente virtuale. Tuttavia, rivolgersi ai volontari della Onlus costituisce anche un modo per aprirsi e mettere a nudo le proprie paure e fragilità senza il pericolo di essere giudicati. Parlare con un estraneo, rivelandosi, è molto più facile a volte rispetto al confidarsi con un amico o un parente. Oggi tendiamo un po’ tutti a celare i nostri punti deboli. Recitiamo la parte di signori o signore vigorosi, come ci chiede di essere la società. Essa ci pretende perfetti, forti, performanti, scattanti, giovani, belli, felici. Intanto nascondiamo sotto il tappeto o nell’armadio insicurezze, dubbi, timori, convinti che smascherarli al prossimo equivalga ad un’ammissione di debolezza. Eppure è soltanto quando abbiamo il coraggio di mostrarci per ciò che siamo che possiamo rompere il bozzolo nel quale viviamo, vincendo la solitudine ed avvicinandoci all’altro.
Pubblicato su Libero 12 dicembre 2019