Le carceri sorgono nel cuore delle grandi città, eppure rappresentano un mondo a se stante, una realtà sospesa in cui la dimensione del tempo si dilata rendendo infinito anche un minuto e quella dello spazio si restringe nei limiti angusti di una cella di 3 metri per 2, condivisi con almeno due o tre persone che non hanno nulla in comune tra loro se non il fatto di trovarsi lì.

Un ammasso di cemento armato e di ferraglia rumorosa e pesantissima. Il carcere non lo si dimentica più quando lo si vive. Ti resta inciso dentro, e anche fuori. Dal carcere puoi uscire, in alcuni casi, ma lui non uscirà mai da te. E forse questa è l’unica certezza che puoi avere. 

“Capisci di stare per entrare dentro l’inferno già da fuori, inizi a sentire l’aria asfittica, a percepire la disperazione che alberga sia al di qua che al di là delle sbarre”, così Raffaele Sollecito ci descrive il carcere, che lui ha vissuto per quattro interminabili anni da assassino, pur essendo innocente. 

Ma ad accompagnarti in questo inferno non c’è nessun Virgilio. Ti scortano le guardie, “anche per loro non sei altro che un criminale come tutti gli altri già prima del giudizio”, racconta Raffaele. 

Si è tutti uguali solo in due casi: davanti alla morte e in galera. Lì non esistono differenze sociali. Si è tutti nient’altro che numeri, spogliati di tutto. Persino della propria dignità.

“È disumano il carcere in Italia”, ne è convinto Raffaele. E questa non è l’opinione di chi il carcere lo ha vissuto, bensì un dato di fatto. Il sovraffollamento, che porta anche alla convivenza forzata tra persone di diversa cultura ed etnia e che impedisce la realizzazione di un trattamento individualizzato di rieducazione, è solo una delle cause per cui l’Italia è stata condannata più volte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante.

Eppure c’è qualcosa di peggiore dell’essere ammassato con altre 4 persone in uno sgabuzzino: l’isolamento. Ce lo confida Sollecito, con la sua pacatezza: “Sono stato io a rinunciare all’isolamento, una misura decisa per preservarmi da possibili ritorsioni e violenze da parte degli altri detenuti che, per il codice etico che vige tra di loro, puniscono chi fa del male ai più indifesi, donne, bambini, anziani. Trascorsi i primi due mesi, ho firmato per essere integrato con tutti gli altri, pur sapendo a cosa sarei andato incontro, solo perché isolato stavo per impazzire”. 

Ma poi quel rischio non si concretizza, anzi Raffaele trova la sua salvezza tra i peggiori criminale italiani, quelli che noi indicheremmo come la feccia della società, rifiuti umani tossici che non hanno neanche la speranza di essere smaltiti e riciclati, perciò permangono a vita dentro quel contenitore di vite perse, quell’enorme discarica umana che è il carcere di massima sicurezza.

Boss mafiosi, killer spietati, stupratori, sono questi i compagni di cella di Raffaele Sollecito, un universitario poco più che ventenne all’epoca dei fatti, riservato e di buona famiglia. Eppure Raffaele, con una lucidità eccezionale, comprende che adesso è in carcere e deve adattarsi alle sue regole per sopravvivere.

Le leggi della galera le apprendi solo sul campo, mica ci sono corsi o tutorial. Al massimo puoi ricevere qualche consiglio, o – sarebbe più corretto dire – avvertimento, pronunciato a bassissima voce. 

“Impari subito, ad esempio, a fare la doccia in mutande. Come tutti gli altri. È una regola imposta dai detenuti: bisogna nascondere quella parte di sé che a volte è la parte più cattiva e vergognosa”, racconta Sollecito, che con grande diplomazia si è tenuto sempre al di fuori dei vari clan che cercavano di fagocitarlo nelle loro spire, offrendogli protezione. “Sapevo che, se avessi aderito ad uno di questi gruppi, avrei dovuto sottostare alle regole del capo senza potermi sottrarre”, spiega il ragazzo, che aggiunge “è anche così che può succedere che si entri in carcere da persona perbene e se ne esca da spietato criminale, carico di rabbia”.

Dei grandi boss mafiosi egli ci svela qualcosa di insospettabile: adorano cucinare e gli riesce molto bene. Dai dolci alla pasta fatta in casa, anzi fatta in cella, attrezzandosi come si può, creando persino un forno con uno sgabellino, una coperta e un fornello a gas. Una visione insolita dei loro lati più umani. 

“Il giorno si sopporta. La notte, invece, diventa ancora più tragica, le celle gelide si popolano dei fantasmi di ciascuno e nei corridoi risuonano urla di dolore e pianti soffocati”, racconta Raffaele. C’è chi approfitta delle tenebre per togliersi la vita come può, persino servendosi di un chiodo piantato in fronte con l’ausilio di una padella usata come fosse un martello, ricorda Sollecito. Il suicidio per qualcuno rappresenta l’unico modo per andare oltre le sbarre, per uscire fuori da quella condizione, da quel limbo. 

Il tempo in carcere non trascorre, ma ti lasci trascorrere dal tempo. Per renderlo più sopportabile, i detenuti segnano le loro X sul calendario, contando i giorni che li separano da una libertà che forse non riacquisteranno mai. “Persino gli ergastolani segnano le X, forse per dare un senso al tempo. Ma per me è solo un modo sbagliato di affrontare la detenzione. Contare i giorni non fa altro che dilatarli”, spiega Sollecito, che da detenuto viveva giorno per giorno, concentrandosi sul presente senza fantasticare troppo sul futuro. Quasi per non darsi illusioni, mantenendo il contatto con la realtà, unico modo per contrastarla.

Fuori dal carcere la gente lo chiamava “l’assassino con gli occhi di ghiaccio”. Eppure in quegli occhi verdi si può leggere solo tanto calore, mescolato ad un dolore incancellabile che a sussulti emerge.

La gente ti dipinge come più le piace. E stuzzicava la morbosità di tutti fare di un ragazzo dall’aria pulita un mostro sanguinario, un tossico, un pervertito.

La società è malata: si illude di liberarsi del suo male stipando nelle carceri tutto ciò che rifiuta di sé, ma il suo male le resta attaccato addosso perché fa parte di lei.

Raffaele ancora non è stato perdonato per un crimine che non ha commesso. Ancora la gente lo guarda con sospetto e curiosità, come si osservano i fenomeni da baraccone al circo. E lui lo sente addosso questo sguardo inquisitorio, ma, ancora una volta, ha imparato a conviverci. Ad adattarsi, perché ci sono cose che non potremo cambiare mai, ci tocca accettarle, per andare avanti. 

Raffaele oggi è “itinerante”, come lui stesso si definisce. E forse non a caso ci diamo appuntamento in una stazione, mentre è in transito tra una meta e l’altra. Oltre all’impegno in prima linea per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle criticità del nostro sistema penitenziario, il giovane ingegnere informatico ha creato una start-up per commemorare i cari estinti, (idea nata dal bisogno insoddisfatto, durante gli anni della detenzione, di visitare la tomba della madre, morta nel 2005) e ha già avviato un nuovo progetto: suntickets, un servizio online che consente all’utente di prenotare il suo ombrellone visionandolo dall’alto. Emergere, costruirsi il proprio futuro, non è facile, forse soprattutto per lui, ma Raffaele ce la sta mettendo tutta. Intanto non sta mai fermo troppo a lungo in un posto, perché vuole sentirsi libero di andare via, senza più costrizione né catene. Ma forse ora è tempo di fermarsi in un luogo in cui essere finalmente libero. Libero di avere una vita normale, senza la paura di essere ingabbiato in una nuova trappola senza uscita. 

Il 16 gennaio la Corte d’Appello di Firenze si pronuncerà circa il risarcimento di 516 mila euro che hanno richiesto gli avvocati di Sollecito, Giulia Bongiorno e Luca Maori, per ingiusta detenzione. Una cifra che non coprirebbe neanche metà delle spese processuali di questi anni, dal 2007 fino al 2015 quando Raffaele è stato dichiarato innocente in via definitiva. Insomma, una tragedia che ha devastato l’intera famiglia Sollecito persino sotto il profilo economico. 

Abbiamo distrutto la vita a questo ragazzo. Siamo colpevoli tutti. Ma nessuno ci condannerà. Nessuno ci manderà in galera. Anzi continueremo a fare del male ancora. Ogni volta che giudicheremo chiunque a cuor leggero. Ogni volta che coltiveremo dentro di noi un pregiudizio. Ogni volta che punteremo il dito verso l’altro. Solo per poterci sentire migliori di lui. Puliti.

Articolo pubblicato su Libero il 10 gennaio del 2017 

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