“Mio padre ha la maledetta mania di comandare su tutto e tutti. Siamo quattro figlie femmine e ci odia una più dell’altra. Ci tiene nascoste perché si vergogna di averci messo al mondo. Tratta da figlio solo mio fratello. Noi donne non possiamo fare niente, non possiamo studiare, non possiamo vivere”, confessa Janna, diciottenne di origine tunisina nata e cresciuta in Italia da genitori immigrati, in uno dei numerosi gruppi chiusi di Facebook in cui le giovani musulmane si incontrano per scambiarsi consigli e sostegno, testimoniando terribili violenze fisiche e psicologiche.
Tali club segreti di adolescenti disperate, divise tra il desiderio di fare parte della società in cui sono cresciute e la minaccia di essere per questo ripudiate, abbandonate o persino uccise, vengono creati anche su WhatsApp.
Janna chiede aiuto, vorrebbe scappare di casa, sposare il primo che incontra per riuscire a tirarsi fuori da quell’inferno, ma si sentirebbe in colpa nei confronti della madre in quanto la lascerebbe da sola, alla mercé di un marito che la sottopone ad ogni genere di angherie. “Mi sento oppressa, imprigionata e sono la loro burattina. Non posso uscire, non posso rimanere tanto al telefono altrimenti mio papà si insospettisce, non posso truccarmi, non posso sciogliere i capelli, non posso mettermi i leggins e le canotte, non posso mettere foto sui social, non posso dormire a casa delle mie amiche e non posso invitarle da me”, è infinito l’elenco dei divieti a cui deve sottostare la ragazza, la quale racconta al gruppo una dolorosa vicenda.
“In terza media scrissi un tema sull’amore vincendo il concorso a cui la mia classe aveva partecipato. Mi comunicarono che il mio componimento sarebbe stato pubblicato su un giornale e anche online. Non ero mai stata tanto felice. Tornata a casa, lo dissi alla mamma e lei mi rispose che, qualora lo avesse scoperto, mio padre avrebbe pensato che l’avessi scritto per un ragazzo e quindi mi avrebbe ammazzata. Così chiamò il preside dichiarando che io non volevo che il mio lavoro fosse reso noto. Piansi per settimane”.
Non è facile la vita di queste donne nei Paesi europei, che si definiscono “liberi” e “civili” e che pure consentono che le bambine musulmane siano trattate come oggetti di scarso valore, che vengano ritirate dalla scuola dell’obbligo per essere educate in casa a diventare brave madri e mogli devote o che vengano spedite nei Paesi di provenienza per essere date in spose precocemente.
Le comunità islamiche stabilitesi sul nostro continente vivono genuflesse su loro stesse, legate strenuamente ai loro atavici costumi, per timore di perdere la propria identità in un universo globale che minaccia di inghiottirle, impastarle e digerirle, annullandole. Esse vogliono vivere nel nostro mondo, ma non ne vogliono fare parte. Vogliono stare con noi, ma odiano la nostra cultura. Pretendono di essere loro a dettare leggi e regole, importate direttamente dall’Africa ed imposte alle figlie con la frusta e le torture. Emigrare in Occidente comporta il rischio di perire, di sciogliersi. E, per scongiurare tale pericolo, ecco che le posizioni si fanno più estreme, più radicali, più intransigenti. Non negoziabili.
Nessuna speranza viene lasciata a Janna, che ha già spento da un bel pezzo tutti i sogni che una fanciulla custodisce nel cuore. Persino coloro a cui rivolge la sua richiesta di soccorso le rispondono che deve rassegnarsi. “Non puoi farci niente, è tuo padre, devi rispettarlo”, “questa è l’esistenza di una donna”, “adattati o peggio per te”, “sei nata femmina, cosa vuoi farci?”, “quando poi ti sposi è anche peggio, vedrai”, commentano le altre.
“In Europa le comunità islamiche obbligano le figlie a mettere il velo, a fare importanti scelte di vita, a rinunciare alle proprie ambizioni. In questo processo la religione conta poco. Ciò che influenza queste famiglie e le porta ad assumere tale rigidità è la critica, ossia la paura di essere giudicati”, ci spiega Fatima Zara El Amrani, ventenne di origine marocchina cresciuta in Italia, attivista dei diritti umani che viaggia nell’UE e all’estero.
Fatima, che attualmente vive e studia a Londra, afferma che consiglierebbe a Janna e ad ogni giovane che si trova nelle sue stesse condizioni di ribellarsi. “I genitori devono essere rispettati, ma a 18 anni un individuo, uomo o donna che sia, ha il diritto ed il dovere di imboccare la sua strada, quantunque ciò comporti il ritrovarsi da soli contro tutti”, conclude Fatima, che invita le ragazze a non avere paura e ad unirsi.
Delle donne che in milioni in Europa vivono segregate e vengono frustrate perché hanno osato mettere un po’ di rossetto, non si curano le lagnose femministe occidentali, che hanno trasformato le nobili battaglie per i diritti in maratone per la difesa delle desinenze. Forse sono troppo impegnate nel processo di santificazione di Asia Argento, elevata al ruolo di martire (abusiva) per le pari opportunità.
Amen.