Potrebbe essere una delle storie d’amore più romantiche di sempre, se non fosse intrecciata a “la più atroce impresa criminale nella storia della Repubblica”, come ha definito la strage di Erba, in cui hanno perso la vita tre donne e un bambino di due anni, il pm Massimo Astori. Amore e Morte. Eros e Thanatos, due forze che si oppongono e che pure vanno a braccetto.

Un uomo e una donna, Olindo Romano e Rosa Bazzi, marito e moglie, lui netturbino e lei domestica ad ore, si sono dichiarati colpevoli di crimini efferati pur di restare uniti, sotto la falsa promessa di una condanna lieve, di soli 4/5 anni, nonché della garanzia di godere di una cella matrimoniale in cui continuare a vivere insieme. Due cuori e qualche sbarra insomma. Si sarebbe trattato soltanto di trasferirsi dalla loro umile casetta al pianoterra di una ex-cascina ristrutturata all’angusto bugigattolo del carcere. Poi sarebbe finito tutto.

Stupisce tale ingenuità puerile, tanto più da parte di due sanguinari assassini, autori di quattro delitti perfetti: presumibilmente pianificati a lungo e commessi tutti nel giro di pochi minuti, senza essere visti, senza lasciare alcuna traccia sulla scena del crimine, senza riportare alcuna macchia di sangue addosso o nella loro abitazione, con una perizia militare, con una precisione ed un’efficacia degne di esperti del crimine di altissimo livello ed utilizzando un metodo omicidiario, lo sgozzamento, tipico delle comunità islamiche, che fa apparire l’uccisione delle vittime, in particolare del bambino, Youssef Marzouk, morto per dissanguamento sul divano dopo essere stato raggiunto da un’unica coltellata ben piazzata alla gola, come un sacrificio.

Più è violento il delitto maggiori sono lo sconcerto da parte della società nonché l’urgenza di trovare il colpevole da punire, richiudendolo in una cella con la certezza di esserci liberati per sempre della parte peggiore di noi. Ed Olindo e Rosa erano i colpevoli perfetti su cui fare ricadere ogni colpa, tanto da portare gli inquirenti ad abbandonare da subito ogni altra possibile pista.

Ed è sulla base sia degli elementi trascurati durante il processo che di elementi probatori ulteriori, già verificati dall’autorità giudiziaria e costituenti quindi veri e propri atti giudiziari e non semplici dichiarazioni, che gli avvocati della difesa si propongono di chiedere la revisione del processo.

A dichiararlo è Nico D’Ascola, avvocato della difesa insieme a Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, nonché ex presidente della Commissione Giustizia del Senato durante il governo Renzi. Tuttavia, il senatore, stimatissimo giurista, che si dice pronto a mettere la mano sul fuoco riguardo all’innocenza di Olindo e Rosa, mantiene l’assoluto riserbo circa il materiale inedito raccolto che costituirà il fondamento per la presentazione dell’istanza di revisione.

Con la meticolosa precisione di chi il diritto lo mastica da sempre, D’Ascola non enfatizza le dichiarazioni reiterate di Azouz Marzouk, marito di Raffaella e padre di Youssef, convinto anche lui dell’innocenza degli attuali condannati. Tuttavia, il tunisino, secondo il senatore, ha offerto delle indicazioni alternative che devono essere vagliate, verificate ed intrecciate con il materiale che ha la dignità dell’atto processuale e che allontanerebbe la responsabilità del crimine da Rosa e Olindo.

“Deboli e tutti neutralizzabili”, così l’ex senatore definisce gli elementi di prova, anzi “gli pseudo elementi dimostrativi della colpevolezza”, solo “apparentemente inconfutabili”, che hanno portato alla condanna all’ergastolo con tre anni di isolamento diurno dei coniugi Romano (il massimo della pena). E D’Ascola li snocciola tutti, ad uno ad uno. Questi sono stati tre:

  • due prove dichiarative, ossia la confessione di Rosa e Olindo e le dichiarazioni di Mario Frigerio, marito di una delle vittime, Valeria Cherubini, salvatosi perché creduto morto dagli assalitori, il quale riconosce inizialmente Olindo e non Rosa, che verrà riconosciuta dallo stesso solo nel corso del dibattimento.
  • E la presenza di una traccia ematica sul battitacco della portiera anteriore sinistra della macchina di Olindo.

È vero che i Romano confessano la loro responsabilità, ma lo fanno sulla base di una ricostruzione dei fatti nella quale l’avvocato Schembri è stato capace di individuare ben 384 contraddizioni rispetto alla realtà dei fatti che risulta da prove oggettive e accertate”, specifica il presidente. Inoltre, le circostanze riferite da Olindo e Rosa e corrispondenti invece alla realtà erano già conosciute da tutti, in quanto erano state diffuse dalla stampa e dalla tv e si trovavano contenute anche nel provvedimento di fermo che era stato letto dai coniugi al momento dell’arresto. Insomma, la confessione risultava priva di qualsiasi elemento di novità oltre che non sincera.

Ma fatto ben più grave, a giudizio di D’Ascola, è che i coniugi vengano indotti a credere che confessando potranno godere di un trattamento di favore e restare uniti. Ed è Olindo, come dimostra una registrazione ambientale, a convincere con insistenza sua moglie a confessare insieme a lui un crimine terribile di cui non sono colpevoli pur di non essere divisi. In fondo, loro sono dei poveracci e nulla possono contro uno Stato più forte di loro che li accusa.

Ed è a questo punto che il legale ci tiene a raccontarci chi sono davvero Olindo e Rosa: “persone semplici, pacifiche, che ogni Natale ci mandano le letterine di auguri simili a quelle dei bambini, con un titolo di studio assurdamente minimo, quasi analfabeti, hanno sempre svolto attività umili, non sono persone dalle quali si possa pretendere la macchinazione, la predisposizione artificiosa di chissà quali difese, perché questo non è nella loro natura, come dimostrano le perizie psichiatriche oltre che tutta la loro vita”. Dunque, sembra impensabile che i Romano avessero predisposto, peraltro in un momento così tragico come l’arresto, “una difesa così diabolica”.

Quindi, una confessione esiste e la difesa non lo nega, ma si tratta di una confessione che deriva dal “rapporto di succubanza che lega Olindo a Rosa e che rende prioritario l’obiettivo di continuare a vivere insieme ancorché fossero stati condannati per un crimine non commesso”.

Per quanto riguarda il riconoscimento di Olindo da parte di Frigerio, questo avviene in un secondo momento, quando Frigerio aveva già fornito una descrizione del suo aggressore, indicandolo come un nordafricano, molto alto, scuro di carnagione, con sopracciglia folte, capelli molto corti, giovane, agile, atletico, forte ed esperto di arti marziali.

Profilo assolutamente incompatibile con Olindo che è un uomo pacioso, di carnagione rosea, con occhi azzurri, con diverse problematiche di salute. Ma l’elemento che renderebbe tale riconoscimento viziato è costituito dal fatto che Frigerio dice che potrebbe essere stato il netturbino ad aggredirlo solo quando gli viene fatta la domanda: “Può essere stato Olindo?”.

“Il codice di procedura penale indica questo tipo di domande come suggestive, perché indicano già la risposta. Si tratta di una domanda vietata che conduce perciò ad una risposta inutilizzabile”, spiega D’Ascola.

Infine, la cosiddetta “prova scientifica”, ossia la traccia di sangue. “Uso un termine improprio, ma noi della difesa ci siamo ribellati al fatto che potesse essere considerata scientifica”, afferma D’Ascola, che sottolinea come “dopo una simile macelleria in cui fu sparsa una quantità impressionante di sangue, sarebbe stato impossibile per gli autori degli omicidi risultare esenti da qualsiasi macchia”, eppure nessuna traccia è stata trovata nella casa dei Romano né suoi loro vestiti. Ecco anche perché molti criminologi sono convinti dell’innocenza dei condannati: è impossibile coniugare quel massacro con una simile pulizia in tempi così serrati.

Nessuna macchia di sangue fu trovata sulla macchina di Olindo dopo quella mattanza, “eppure – osserva il giurista – l’uomo usò la macchina in quel lasso di tempo per recarsi al McDonald insieme alla moglie e si presume che avesse almeno le mani o i vestiti sporchi di sangue”.

A distanza di 15 giorni dai fatti viene trovata una macchiolina estremamente degradata di sostanza organica, risultato di una miscelazione del sangue, appartenente a Valeria Cherubini, con l’acqua. “Circostanza non irrilevante – commenta l’avvocato – perché i pompieri avevano lavato le scale e gli appartamenti. Quindi tale miscelazione fa pensare ad un soggetto che abbia percorso quel tratto di strada, inclusa la corte interna del palazzo, perché sangue e acqua erano arrivati fino a lì, in un momento posteriore alla strage e non contestuale alla stessa”.

Inoltre, sulla macchina di Olindo era salito un carabiniere per svolgere un’ispezione, lo stesso era stato nell’appartamento di Frigerio dove era stata massacrata la Cherubini. È quindi facile che il carabiniere abbia trasferito innocentemente la macchia degradata sul battitacco della macchina del Romano.

Un’altra circostanza che fa pensare a soggetti con una elevata capacità organizzativa e di realizzazione, ad “un commando di esperti”, è costituita dal fatto che quella sera mancò la luce all’interno della corte dove abitavano vittime e condannati. E fu proprio Olindo a chiamare i vigili del fuoco affinché verificassero un possibile guasto. Impensabile se fosse stato lui l’assassino. Questo fa pensare ad un agguato: gli autori del massacro aspettavano le vittime già all’interno della casa di Raffaella Castagna. L’inquilino che abitava al piano inferiore disse di avere sentito insieme a sua moglie che qualcuno si muoveva all’interno di quell’appartamento la sera della strage, in orari in cui Raffaella era fuori e la casa vuota ed in cui i Romano erano al lavoro. “Anche questi elementi furono assolutamente trascurati”, commenta D’Ascola.

“È stato un processo mediatico”, non ha dubbi l’avvocato, “già prima del processo l’opinione pubblica aveva condannato coloro che riteneva colpevoli, con la complicità della stampa e della televisione che proponevano una unica versione come verità assoluta che nessuno si sarebbe dovuto permettere di confutare”.

Quanto male si fa alla Giustizia allorquando la cronaca nera diventa intrattenimento, con l’obiettivo più di colpire il pubblico che di trovare la verità dei fatti, ed i processi spettacolo, prodotti da consumare una sera davanti alla tv, mangiando pop-corn!

Quando il pubblico ha già deciso chi è il colpevole, “fare i processi diventa un’opera inutile e disperata”, spiega il senatore che racconta le difficoltà incontrate dai suoi colleghi in primo grado nell’esercitare i loro diritti di difesa, dato che la pubblica opinione, “scatenata”, li considerava come dei “complici impropri che si permettevano di difendere assassini spietati”.

Forse la strage di Erba è una storia tutta da riscrivere, un olocausto in cui persero la vita non solo le quattro vittime accertate, ma anche un netturbino e una domestica, legati in modo morboso da un profondo disperato amore.

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