Prendersi a botte per noia, rabbia, frustrazione. A volte fino ad uccidersi. Sembra dilagare questa ultima tendenza tra i giovanissimi, anche per effetto della chiusura prolungata delle scuole, che non costituiscono soltanto luoghi di apprendimento e di educazione ma pure di socializzazione. Ed è così che, stufi di permanere sigillati in casa, di non potere più allenarsi in palestra o in altri centri ricreativi, privi di impegni e senza doveri, ovvero deresponsabilizzati persino nei confronti di loro stessi, gli adolescenti, sempre più soli e fragili poiché spogliati dei tradizionali punti di riferimento, si incontrano nelle piazze e in strada trovando troppo spesso tragica coesione in atti di bullismo o in brutali dinamiche tra gruppi rivali, tra un noi e un loro.

È accaduto di nuovo. Martedì sera, intorno alle ore 19, davanti al McDonald’s di via Vitruvio, nel cuore di Formia, in provincia di Latina, è esplosa una rissa tra minorenni per futili motivi e un diciassettenne, Romeo, ha perso la vita in seguito ad una emorragia provocata da tre o quattro coltellate ricevute all’addome da parte di un suo coetaneo. Nella colluttazione sono rimasti feriti altri due giovani di 18 e 20 anni, uno dei due versa in gravi condizioni ma non rischia di perire. Ancora non è chiara la dinamica dei fatti né la causa scatenante della violenza, tuttavia risulta che i ragazzi coinvolti, i quali sono almeno una decina, dalle parolacce sono passati rapidamente agli spintoni e poi qualcuno ha tirato fuori le armi. È stato fermato dalla polizia un minorenne della provincia di Caserta, sospettato di avere accoltellato a morte Romeo e gli investigatori stanno lavorando allo scopo di identificare gli altri partecipanti all’accapigliamento.

Lunedì mattina, invece, a Napoli, quartiere Pianura, un tredicenne è stato picchiato addirittura con un tirapugni da 7 coetanei all’uscita di scuola. Soltanto una settimana prima gli stessi minori avevano aggredito il tredicenne e un suo amico, arrivando a minacciarli con un coltello. Le motivazioni sempre banali, tanto stupide da apparire nient’altro che pretesti per dare libero sfogo alla forza bruta. In questo caso, si trattava di una partita di calcio, che dovrebbe essere una occasione di divertimento, di svago ed evasione, ma che pure è stata trasformata in una opportunità per spargere sangue. Episodi analoghi si sono verificati su tutto il territorio nazionale nelle passate settimane: a Modena, Genova, Milano, Roma, Pordenone, Foggia, Reggio Calabria. Ci si massacra reciprocamente persino utilizzando catene, bastoni, bottiglie. E non sono rari i casi in cui ci si dà appuntamento in determinati luoghi attraverso i social network al fine di malmenarsi. Una maniera di urlare: “Io esisto”. Un modo per ribellarsi ai numerosi e soffocanti divieti che caratterizzano la nostra quotidianità da circa un anno.

Certo, fa impressione che a tredici anni, anziché tenere in tasca le macchinine o le figurine dei calciatori da scambiare con gli amichetti, si nascondano lame affilate e si tremi dalla voglia di brandirle e adoperarle, suscitando spavento e sofferenza nell’altro. Forse lo si fa per esorcizzare il terrore nei confronti del domani nonché la propria fragilità, poiché con un arma in mano ci si sente più forti in quanto si è in grado di incutere timore. Ancora una volta non possiamo fare a meno di domandarci dove diavolo siano le famiglie di questi fanciulli, le quali non si accorgono che i loro figli se ne vanno a zonzo con arnesi contundenti nello zainetto. Ed è proprio questo il punto: è scesa una cortina di solitudine e di gelo tra il mondo dei giovani e quello degli adulti. Mi viene in mente un titolo che lessi su qualche quotidiano alcune settimane addietro, restando impietrita: “Ho paura di mio figlio”. Un padre esternava la riluttanza nell’abbracciare la sua creatura la quale avrebbe potuto infettarlo, ossia trasmettergli il coronavirus. Abbiamo criminalizzato i ragazzi: sono gli asintomatici, colpevoli di essere sani, i quali potrebbero contagiare genitori, nonni, insegnanti, ammazzandoli, quantunque involontariamente. È con sospetto che li abbiamo guardati, dire “osservati” sarebbe troppo dato che li consideriamo poco o nulla.

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