È una resa incondizionata la continua rinuncia ai nostri simboli cristiani, alle nostre tradizioni, pure quelle culinarie, persino alla mortadella nei tortellini poiché gli islamici non mangiano carne di maiale, fatta in nome del politically correct, al fine di non offendere e di non suscitare l’ira di chi appartiene ad un’altra civiltà. E sorprende che proprio coloro che tifano per l’integrazione europea e l’UE siano i primi a contribuire alla demolizione di quella matrice culturale che accomuna i popoli del vecchio continente.

Abbiamo tradito noi stessi e le nostre radici ogni volta che abbiamo eliminato un crocefisso dalle nostre aule scolastiche, ogni volta che abbiamo rinunciato al presepe nei luoghi e negli uffici pubblici, fino ad arrivare qualche anno fa a ridicole storpiature come la realizzazione a Potenza del presepe islamico in chiesa con una Maria in burqa e un Giuseppe-Mustafà, su iniziativa di don Franco Corbo, parrocco della chiesa di Sant’Anna.

Tale stravolgimento dei nostri usi viene lodato quale “messaggio di pace e fratellanza”, in verità si tratta di un messaggio di disponibilità all’essere colonizzati da un’altra cultura. Con la scusa della globalizzazione e trincerandoci dietro il concetto di “politicamente corretto”, annientiamo la nostra stessa civiltà, senza comprendere che, se non tuteliamo ciò che ci appartiene, lo perderemo, smarrendo così persino noi stessi.

Ma chi ha aperto il varco a questa prassi demolitrice? È stata proprio la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che, nel 2009, con una sentenza, accogliendo il ricorso presentato da una cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi Albertin, stabilì che “la presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche costituisce una violazione del diritto dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni”, nonché “alla libertà di religione degli alunni”.

La corte di Strasburgo decise inoltre che il governo italiano avrebbe dovuto versare un risarcimento di cinquemila euro per danni morali alla ricorrente, che nel 2002 aveva chiesto all’istituto statale “Vittorino da Feltre” di Abano Terme (Padova), frequentato dai suoi due figli, di togliere i crocefissi dalle aule in nome della laicità dello Stato, ottenendo un netto rifiuto da parte del dirigente scolastico. Si era aperta così una vicenda giudiziaria, scaturita nel ricorso alla Corte di Strasburgo, così come è previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dopo l’esaurimento di tutte le vie di ricorso interne, ed infine in questa sentenza senza precedenti, in quanto si tratta della prima della Corte di Strasburgo in materia di simboli religiosi all’interno delle scuole.

Nel gennaio del 2010 il governo italiano ha presentato ricorso contro questa sentenza, accolto dalla Corte, che però nel marzo del 2011, riunita nella Grande Camera, ha stabilito che “la presenza del crocifisso nelle scuole è anche di natura tale da offendere la libertà religiosa e il diritto all’educazione degli alunni in maniera più grave rispetto ai capi di abbigliamento religiosi che, ad esempio, può indossare un insegnante, come il velo islamico”. Secondo la Grande Camera, insomma, così come specifica alla fine, costituisce un’offesa di minore gravità nei confronti della neutralità confessionale dello stato l’uso del burqa a scuola piuttosto che la presenza in aula del crocifisso.

Non deve stupirci se, in questo clima, si sgretola anche il sogno di un’Europa unita. Una vera coesione non si sarebbe potuta instaurare soltanto attraverso la creazione di un mercato unico, di una moneta unica, abbattendo le barriere agli scambi, favorendo la libera circolazione delle merci, dei capitali, dei cittadini, in questo processo sarebbe stato fondamentale piuttosto che i cittadini europei sviluppassero un sentire comune, un’identità europea.

E questo non può che avvenire attraverso la riscoperta di ciò che ci unisce, delle nostre radici comuni, prima tra tutte quella cristiana, negata dalla Corte e negata ogni giorno da tutti noi quando rinunciamo ai nostri simboli per non ledere la sensibilità di chi qui è nostro ospite.

Secondo la Corte di Strasburgo, la presenza del crocifisso nelle aule potrebbe infastidire i ragazzi che praticano altre religioni o quelli atei. In tal modo, però, la Corte, troppo intenta a difendere il pluralismo, elemento essenziale di una società democratica, dimostra di non considerare il fatto fondamentale che il cristianesimo fa parte della nostra storia e della nostra cultura.

Il crocifisso, non in quanto simbolo della religione cattolica, ma come simbolo universale, potrebbe rappresentare, e di fatto rappresenta, un elemento di coesione di tutti i cittadini degli Stati membri, utile per creare quel sentimento affettivo senza il quale lo stesso processo di integrazione europea,che si fonda sui valori cristiani, risulterebbe – e di fatto risulta – gravemente compromesso, o fallirebbe, in quanto non porterebbe alla creazione di un demos europeo.

Risulta difficile credere che i nostri ragazzi si possano sentire offesi dalla presenza del crocifisso nelle loro aule o del presepe nelle loro scuole.

La presenza di questi simboli, infatti, non nega la possibilità di aderire ad altre fedi religiose né impone l’adesione a quella cristiana; non nega il pluralismo, ma lo difende; non ci divide, ma ci unisce al di là del colore politico o di quello della pelle; non è una pietra di inciampo sulla strada della nascita di una società multiculturale , piuttosto rappresenta un modo per superare le divisione e le differenze,perché, per creare coesione bisogna trovare convergenza in qualcosa di universale che unisca, ed i valori cristiani di amore non sono solo della Chiesa cattolica, bensì di tutti gli esseri umani.

Dunque, non commettiamo più il crimine di provarci delle nostre radici, ricordando che non potremo recuperare domani ciò a cui rinunciamo oggi.

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