Non tutto il Covid viene per nuocere, almeno nelle carceri italiane dove il sovraffollamento era diventato cronico da lustri fino all’esplosione dell’epidemia e pure delle conseguenti rivolte dei detenuti che hanno condotto all’adozione urgente (e non priva di aspre polemiche) di provvedimenti volti a ridurre il numero dei detenuti, che nel giro di sei mesi è passato da 61.230 (dati del 29 febbraio 2020) a 53.921 (dati del 31 agosto 2020) unità a fronte di una capienza regolamentare di 50.574. In cella dunque i ristretti non dispongono ancora del minimo spazio vitale personale, eppure non stanno più appiccicati come sardine, condizione che di fatto rende impossibile la realizzazione di un percorso individuale di recupero e quindi annulla la finalità fondamentale della detenzione, che è – e occorre sempre tenerlo presente – non la mera punizione bensì la rieducazione, indi il reinserimento in società.
Tuttavia, l’esistenza in gattabuia non è migliorata. Il malessere che affligge parte della popolazione civile a causa della tensione in cui abbiamo vissuto immersi da marzo ha valicato anche le mura degli istituti di pena, insinuandosi nei lunghi corridoi e penetrando nelle tetre celle. Ed è lì che sulle spalle dei condannati, oltre alla durezza della quotidianità in galera, si è aggiunto un ulteriore fardello, ossia il terrore della malattia unito alla impossibilità di mantenere il distanziamento sociale in luoghi in cui si campa, si dorme e si mangia uno sull’altro.
Insomma, è lievitato il disagio mentale, che dietro le sbarre si trasmette da un individuo all’altro come fosse un virus: chi non arriva recando già delle patologie mentali è frequente che si ammali per effetto delle difficoltà connesse alla vita “al fresco” nonché della convivenza forzata con soggetti problematici, i quali dovrebbero avere un’altra collocazione e seguire un altro percorso, specificamente di cura. Invece la promiscuità regna sovrana, cosa che nuoce a tutti. In base ai dati diffusi in occasione del XX Congresso Nazionale Simspe – Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, tenutosi lo scorso ottobre, oltre un detenuto su due presenta una malattia o un disturbo mentale (disturbi psicotici, nevrotici o della personalità, depressione, dipendenza da alcol o droghe, e altri).
Facile considerare il reo una sorta di scarto della comunità ed esclamare: “Ma tanto se sta male, chi se ne importa?”. Invece, quello che accade in carcere ci riguarda e non per niente gli istituti penitenziari sono stati edificati nel cuore delle nostre città. Il livello di civiltà e di democraticità di un Paese si misura pure dalla qualità della sue galere, dove peraltro può capitare a chiunque di noi di soggiornare se teniamo conto dell’altissima quantità di detenuti ancora in attesa di giudizio o di quelli rivelatisi poi innocenti.
Ad ogni modo, si assiste nelle ultime settimane ad un aumento delle aggressioni da parte dei carcerati nei confronti delle guardie penitenziarie. In particolare in Sardegna, dove è importante la presenza di detenuti con patologie psichiatriche. In queste ore diversi agenti in servizio nelle carceri di Oristano e Cagliari hanno dovuto fare ricorso alle cure dei sanitari a seguito delle violenze subite, mentre la scorsa settimana nel penitenziario di Uta (Cagliari) un condannato si è avventato su un poliziotto e gli ha sputato sugli occhi.
“Il nostro è un vero e proprio bollettino di guerra. La polizia penitenziaria deve fronteggiare giornalmente le difficoltà del carcere, dovute a diverse cause che vanno dalla carenza di organico alle inefficienze strutturali, ma la criticità maggiore è quella relativa alla gestione dei ristretti con patologie di natura psichiatrica”, dichiara Luca Fais, segretario regionale per la Sardegna del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Fais parla di “atti vandalici”, detenuti che distruggono arredi e sanitari, che si armano come possono sfidando i poliziotti di vigilanza. Secondo Donato Capece, segretario generale del SAPPE, la situazione, ormai sempre più drammatica, sarebbe peggiorata con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.), “da allora – spiega il segretario – le carceri si sono riempite di reclusi affetti da seri problemi psichiatrici, ubicati adesso nelle celle con altri detenuti che non hanno le medesime difficoltà”. E in tutto questo il corpo di polizia penitenziaria viene lasciato da solo. Non si interessano alla questione spinosa né il Ministero della Giustizia né quello della Salute.
Le persone con malattia mentale che hanno commesso reati dovrebbero trascorrere il periodo di detenzione all’interno delle Rems, strutture sanitarie regionali per la esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno preso il posto degli O.P.G., chiusi nel 2015 per le scandalose condizioni di degrado in cui venivano costretti i condannati. Le Rems dello stivale sono 30, per la maggior parte site in edifici fatiscenti e provvisori, e ospitano circa 600 persone (dati del 2019). La disponibilità di posti è insufficiente e soprattutto manca un organismo di coordinamento nazionale che vigili altresì su codeste residenze eliminando le differenze tra un territorio e l’altro. Insomma, la chiusura degli O.P.G., che avevamo salutato come la messa al bando di una vergognosa crudeltà, non solo non ha giovato ai detenuti con patologie mentali, peraltro sempre più copiosi, ma ha reso ancora più penosa la condizione dei ristretti senza patologie. L’ennesimo bel pasticcio.