“Non ho mai creato false aspettative. Le difficoltà esistono. E a conclusione di ogni incontro, quando è arrivata la domanda di rito, ho risposto con il cuore: sì, sceglierei ancora il mio bambino, ma ciascuno deve fare i conti con se stesso”, racconta Rita Viotti, presidente dell’Associazione genitori e persone con la sindrome di Down (Agpd) e mamma di Francesco, 11 anni. In questi anni la donna ha incontrato molti genitori con una diagnosi prenatale positiva.
In Italia un neonato ogni 1200 è affetto dalla sindrome di Down, una condizione genetica in cui la persona ha un cromosoma in più ed è accompagnata da un ritardo nella capacità cognitiva e nella crescita fisica. Si stima che nel nostro Paese ci siano circa 40 mila persone che vivono con questa forma di disabilità. L’età media è di 25 anni.
Sono numeri destinati ad assottigliarsi sempre di più, come in Islanda, dove nascono una o due persone con tale sindrome ogni anno, in quanto la maggioranza delle donne che ricevono risposta positiva al test prenatale circa la presenza di anomalie cromosomiche nel feto sceglie l’interruzione di gravidanza.
Ha suscitato accese polemiche la vicenda della neonata di Napoli abbandonata dalla madre, rifiutata poi da 7 famiglie in lista per l’adozione ed infine assegnata in preaffidamento dal tribunale dei minori del capoluogo campano ad un single. I soli ad essersi astenuti da ogni giudizio sono stati proprio loro: i genitori di figli con la sindrome di Down.
“Se potessi, darei a quella mamma un grosso abbraccio”, afferma Laura Simontacchi, madre di Marta, 23 anni. “La scelta della madre e dei potenziali genitori adottivi è legittima. Ognuno reagisce a suo modo. Io e mio marito, avendo saputo che nostro figlio aveva la sindrome di Down quando ero incinta, lo abbiamo accolto senza traumi”, dichiara Rita.
“Sono certo che quello adottivo sarà un bravo papà. Dovrà attrezzarsi a crescere una bimba che manifesterà piccoli problemi, ma le soddisfazioni sono infinite”, sostiene Davide Merlini, padre di Marco, 30 anni.
Secondo Laura, “crescere un figlio con problematiche non è facile. Sono necessari tanto impegno e tanta resistenza. L’amore incondizionato di un genitore è un ideale. Nel mondo reale, quando ti nasce questo figlio che non è come gli altri, resti da solo”.
Anche lei dopo il parto si sentiva confusa e disorientata, ma non ha mai rimpianto di avere messo al mondo la sua piccola. “Non mi considero per questo una persona virtuosa. Ho i miei limiti, i miei momenti neri, in cui mando a quel paese anche mia figlia”, commenta la donna. Laura non si è demoralizzata neanche quando il suo matrimonio è finito e lei si è fatta carico della crescita di Marta.
Nel 1929 l’aspettativa di vita delle persone con la sindrome di Down era di 10 anni, oggi di circa 60, grazie ai progressi della medicina.
“Il 50% dei portatori di questa sindrome ha una patologia cardiaca. Il fatto che Francesco goda di un’ottima salute ha costituito per noi un sollievo. Le difficoltà sono sorte a scuola. È stato faticoso lo scontro con la burocrazia, con certi stereotipi, nonché con il turnover continuo dei docenti, che destabilizza qualsiasi bimbo”, spiega Rita. Le stesse criticità le ha vissute Laura: “il periodo scolastico ha costituito una battaglia”. Di diverso avviso è Davide: “Marco ha incontrato validi insegnanti e compagni che sono ancora cari amici. Ma so che l’ambiente scolastico può essere duro”.
Tuttavia, “finché i ragazzi stanno tra i banchi sono parte della società. La scuola italiana è inclusiva. È importante non distruggere questo modello. L’errore più grande che possiamo commettere è quello di trasmettere alla classe la percezione che l’alunno disabile sia una zavorra”, osserva Rita.
Con tutti i suoi difetti, la scuola viene considerata, in effetti, l’unica forma di integrazione dei ragazzi disabili nella società. Una volta terminata, il percorso di crescita quasi sempre si complica.
Oggi in Italia solo il 13% degli adulti con sindrome di Down, pur rientrando essi in una categoria protetta in base alla legge 68/99 sul collocamento obbligatorio e mirato, ha un lavoro. Tutti gli altri, privati di opportunità di inserimento sociale e di esercizio del loro diritto alle pari opportunità, restano a casa, a carico delle famiglie che dedicano alla loro assistenza ben 17 ore al giorno.
“Un adeguato supporto all’autonomia della persona sin dai primi anni di vita, unito ad un accompagnamento mirato al lavoro, possono innalzare questa percentuale”, osserva il presidente. L’esperienza lo insegna: Marta, la cui mamma ha sempre cercato di renderla autosufficiente, ricopre attualmente il ruolo di addetta amministrativa al magazzino di una importante azienda lombarda. Marco lavora nella ristorazione da 4 anni. Ogni mattina impiega 2 ore per arrivare da solo in sede, tuttavia non si lamenta mai.
“Numerosi studi scientifici dimostrano che laddove è impiegata una persona con la sindrome di Down il clima lavorativo migliora, a beneficio della produttività”, sottolinea Rita.
Le persone Down non sono eterni bambini. Essi lottano per conquistare la propria adultità, pur restando semplici. “Sono molto fiera di mia figlia, perché comprendo la fatica che fa. Come potrei arrendermi, quando vedo Marta che, nonostante tutto, vince ogni sfida?”, si chiede Laura. Tutti e tre i genitori sognano per i loro figli la conquista dell’autonomia. “Anche se l’indipendenza di Francesco non sarà totale, so che potrà comunque essere felice. Ed è questo tutto ciò che desidero”, puntualizza Rita.
A Marco, come a Marta, non è mai accaduto di subire forme di discriminazione. Francesco, invece, la scorsa estate al mare è stato deriso da alcuni coetanei. Tornato a casa ne ha parlato con la sua mamma, che gli ha chiesto: “Cosa pensi di fare?”. E lui ha risposto: “Penso che dovrò cambiare amici”.
I momenti di sconforto capitano ancora. “Allora si lotta, si va avanti”, ci dice Laura, che ha spiegato a Marta cosa sia la sindrome di Down, quando la figlia aveva dieci anni. “Le ho detto che lei non poteva andare al passo degli altri e che avrebbe potuto reagire in tre modi: odiare il mondo, fare la vittima, o vivere con gioia accettando anche i propri limiti. Mi ha risposto che preferiva la terza opzione”.
“Cosa ne sarà di lui quando io non ci sarò?”, è la preoccupazione costante di questi genitori. “Tra l’assegno di accompagnamento di 504 euro e lo stipendio di poco più di 600, mi ripeto che Marco potrà vivere dignitosamente”, afferma Davide. Però i dati dicono che 3 persone Down su 10 percepiscono stipendi inferiori alle normali retribuzioni per il lavoro svolto.
“Marta mi ha insegnato a gioire delle piccole cose. L’altro giorno ha perso il bus, mi ha chiamata dicendo che usando internet aveva visto quale mezzo alternativo prendere. Mi si è aperto il cuore. Come potrei spiegare agli altri genitori che sono in estasi perché mia figlia a 23 anni ha conseguito questo risultato? Forse non capirebbero”, dichiara commossa Laura.