Nadia non aveva soltanto un visino da bambina, con gli occhioni lucenti e curiosi ed i dentini che sbucavano fuori ad ogni sorriso. Ella aveva un’anima da bambina. E mi accorgo che questo è il tratto che ho sempre riscontrato nelle persone che poi sono morte giovani e che recavano quel suo stesso luccichio nello sguardo. È come se esse appartenessero più al Cielo che alla Terra e fossero qui per un breve soffice passaggio nonché un motivo preciso che tuttavia non ci è intellegibile.

Una figura curiosa. Una giornalista televisiva che però non cercava di apparire sexy a tutti i costi, a cui non interessava dimostrare di essere bella oltre che brava né di essere brava oltre che bella. Non gliene fregava un fico secco. Era animata da questa passione smodata, che è quasi una malattia, nei confronti del proprio mestiere, che spesso comporta notti in bianco, scarso riposo, rinuncia alle vacanze, sacrifici, poco tempo da dedicare ad amici e svaghi, occhiaie, pallore lunare. Eppure lo si fa di buon grado e tutto passa in secondo piano. Allora quando si procede così, con questo amore che scorre nelle vene e questa intensità, e si fa ciò che si desidera con successo, si vive sempre abbastanza, persino allorché poi si scompare prematuramente. Nadia è campata troppo poco sì, appena quarant’anni, ma svisceratamente come pochi.

Un vulcano, una bomba. Un’esplosione. Dicono che la prima impressione sia quella che conta. Non so se sia vero, ma di sicuro basta poco a volte per arrivare al cuore delle cose, alla verità. È sufficiente persino un solo istante. Conobbi e vidi Nadia Toffa la prima e l’ultima volta ad una cena al ristorante Baretto di Milano lo scorso gennaio. Eravamo seduti ad un tavolino rotondo io, lei, Vittorio Feltri e Piero Chiambretti e Nadia era tra i commensali quella che più esprimeva e sprigionava vitalità.

Parlava così tanto e con un tale entusiasmo che era persino arduo per noialtri prendere la parola, dunque ci eravamo rassegnati ad ascoltarla a becco chiuso, che detta così sembra brutto ma questa era la sensazione: Nadia era un fiume in piena, inarrestabile. Da mesi lei e Vittorio si scambiavano messaggi su WhatsApp, ed il direttore, avendone poca dimestichezza, mi chiedeva di interpretare quei simboli indecifrabili, ossia le emoticon, a cui la giornalista ricorreva spesso per colorare e vivacizzare la conversazione già ricca di immagini divertenti prese dai social network, battute, ilarità. Si erano conosciuti qualche tempo prima quando Toffa aveva intervistato Feltri nel suo ufficio.

Allora il direttore aveva commentato: “Che tempra quella giornalista, è un peperino! È stata pedante, ma le ho tenuto testa”. L’ammirava e credo che il pensiero di sapere che la donna avesse un cancro al cervello lo facesse addirittura struggere. Si intristiva allorché se ne ricordava. Provava nei confronti di Nadia una dolorosa tenerezza. 

Quella sera la conduttrice fece di tutto per farci dimenticare la sua condizione. O forse per dimenticarla. Appariva in forma, rideva, diceva la sua su qualsiasi argomento. Indossava una collana fatta da lei stessa, composta di lettere che formavano una parola che la divertiva, forse “monster”, ossia “mostro”. Lei se l’era attaccata al collo e ne andava fiera come una bimbetta che costruisce una collanina di pasta. Ci raccontava di avere realizzato altre opere di questo genere.

E noi tutti eravamo stupiti dalla sua vena creativa nonché dal suo spirito infantile e giocoso. È strano ma soltanto questa mattina mi sono accorta che Nadia quel dì tentava di distrarre se stessa, noi, gli altri clienti del locale, persino quelli seduti in fondo alla sala, lì, dietro l’angolo, da quel quinto nostro ospite indesiderato, che se ne stava grave e beffardo al nostro tavolo. Non si parlò di lui per tutto il tempo. Eravamo arrivati al dessert e l’atmosfera si era fatta ancora più intima e rilassata, quando Piero, che fino a quel momento aveva mantenuto un certo contegno e si era limitato più che altro ad ascoltare, prese a narrarci una fantastica storia d’amore di cui lui era stato protagonista.

Il racconto ci pervase a tal punto che alla fine eravamo tutti commossi. Nadia non rideva più. Era improvvisamente ammutolita. E poi scoppiò a piangere. Fu lei a tirare in ballo il quinto convitato, quello che eravamo riusciti ad ignorare per due ore buone. Ci spiegò che i medici le avevano detto che non avrebbe più potuto essere operata, poiché il cancro si era spinto in un’area del cervello in cui non si sarebbe più potuto intervenire chirurgicamente. Non le restava che continuare a bombardarsi di chemioterapia. Anche in quei giorni la stava facendo.

“Lo so che devo morire. Non piango per me. Sto piangendo per mia madre, perché mia mamma resterà senza una figlia e questo non è naturale, non si può accettare”, specificò Nadia con i goccioloni sulle guance. E noi giù a ripeterle le solite frasi che si affermano in simili circostanze e che sono tanto banali quanto necessarie: “Non morirai, vedrai”, “Stai tranquilla, sono sicuro che guarirai”, “Tu sei forte, ne uscirai”. E la cosa che mi stupì di più era il suo desiderio di crederci, nonostante tutto. Ci si attacca strenuamente alla vita e alla speranza. Fino all’ultimo istante. 

Fu una serata bella e pure difficile per tutti quanti. Tornammo a casa provati. Feltri ebbe addirittura un grave abbassamento della pressione, tanto era stato coinvolto da quei discorsi.

Accadeva sette mesi fa. Oggi Nadia non c’è più. Il suo profilo Instagram dalle prime ore del mattino di ieri, martedì 13 agosto, è tempestato di commenti che esprimono cordoglio. Li scrivono gli stessi utenti che neanche un anno addietro la insultarono, l’attaccarono, l’aggredirono, perché ella osò dichiarare: “Il cancro è un dono”. Poiché intendeva crederci. E sperare. Non voleva farsi abbattere.

“Le persone fragili non hanno nessuno che le difende quando vengono bullizzate in rete, la mia reazione vale anche per loro. Ho sentito un dovere, un’emergenza nel rispondere perché sapevo che la popolarità avrebbe dato un’eco maggiore alla mia voce e volevo usare quest’eco per chi è lasciato da solo a fare i conti con la malattia. Come si fa ad occuparsi della malattia, propria o altrui, e sopportare anche la violenza di chi non capisce e giudica?”, scrisse Nadia in una lettera pubblicata su Repubblica lo scorso ottobre.

La gente ha pietà di te solo quando sei crepato. Se sei morto a metà e tuttavia sorridi, stai sulle palle a tanti.

Riproduzione riservata

Articolo pubblicato su Libero il 14 agosto 2019

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