“Tutti gli americani sono sconvolti per la morte brutale di George Floyd, alla cui famiglia il mio governo promette giustizia. Non possiamo consentire che i pianti giusti e le proteste pacifiche siano annegati da folle inferocite”, ha detto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel suo ultimo discorso. Trump, che pure ritiene necessario il ricorso all’esercito per riportare l’ordine in città messe a ferro e fuoco e che si scaglia contro sindaci e governatori accusandoli di non avere adottato misure atte a contrastare quelle che ormai non sono più semplici rivolte bensì “terrorismo domestico”, riconosce i sentimenti di indignazione e di dolore che in questi giorni infiammano gli animi di buona parte degli americani. In particolare, dei neri.
Esiste una questione in fondo mai veramente risolta nella società statunitense. Ed essa è quella razziale. La parità dei diritti tra bianchi e neri è piuttosto recente, risalendo ad una cinquantina di anni fa. Invece secolare è la storia della schiavitù della gente di colore, abbracciando un arco temporale di oltre 350 anni, durante i quali le popolazioni di origine africana sul suolo americano hanno subito vessazioni, angherie, torture di ogni genere e orribili, soprusi, stupri, punizioni, limitazioni delle libertà fondamentali. I neri potevano essere frustati, venduti, uccisi, sfigurati, castrati, mutilati, vivisezionati, marchiati dal padrone, addirittura squartati in pubblica piazza. Le ferite procurategli dalle percosse venivano aperte, al fine di spalmarci sopra peperoncino. In America, ancora nell’Ottocento, il trattamento riservato agli schiavi era più disumano rispetto a quello riservato dai romani ai loro servi prima ancora della nascita di Cristo. A Roma infatti agli schiavi era concesso di studiare, conquistarsi la libertà, diventando liberti, arricchirsi. Nel 1808 fu abolita dagli Stati Uniti la tratta dei neri dall’Africa, che condusse nelle Americhe oltre 12 milioni di esseri umani (altri 2-4 milioni creparono nel corso della traversata dell’Atlantico), per mesi incatenati sulle navi durante viaggi estenuanti. Lo schiavismo invece restò in vigore fino al 1865, fu eliminato da Abramo Lincoln dopo la guerra di secessione. Poi venne il tempo della segregazione razziale (nel 1886 fu istituita la spietata associazione Ku Klux Klan), con norme che impedivano di fatto ai neri di mescolarsi ai bianchi e ne soffocavano la libertà e che rimasero valide fino agli anni Sessanta, ossia fino all’altro ieri.
Tuttavia, non bastano le leggi per fare sì che consuetudini sedimentate e una cultura razzistica radicata vengano spazzate via dall’oggi al domani. Certi comportamenti resistono incisi nella mentalità collettività e vengono perpetrati in forme più tenui ma non meno gravi. Ecco quindi che in quel mondo che noi europei consideriamo libero e prospero, culla dei diritti civili, eppure gremito di contraddizioni, accade tuttora che i neri vengano troppo spesso ammazzati dalla polizia, Floyd non è che l’ultimo di un lungo bollettino di cittadini afroamericani trapassati per mano di agenti, implorando pietà. E a queste uccisioni seguono puntualmente sommosse. Certo, mai devastanti ed estese come quelle attualmente in corso, che si sono inasprite per effetto della pestilenza che ha decimato soprattutto la popolazione di colore e più povera, quella che abita negli squallidi ghetti, in abitazioni fatiscenti, dove l’aspettativa di vita del resto è di appena 63 anni, mentre nei quartieri dei bianchi di oltre 83, e dove il lavoro manca così come la speranza di racimolarne uno, almeno nell’ambito delle attività legali. I neri hanno salute più precaria, sono spesso i più obesi, i meno scolarizzati, i peggio retribuiti, i meno rappresentati, i più miseri, incontrano maggiori difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro a parità di competenze e di curriculum con i bianchi. Nei sobborghi a maggioranza nera si vive come nella giungla e polizia e cittadini in quelle trincee poste ai limiti del sogno americano si osservano con sospetto e sono nemici che si combattono. I faccia a faccia troppo spesso culminano in bagni di sangue. Insomma, nonostante le leggi che ponevano in una condizione di inferiorità gli individui di colore siano state abolite cinquant’anni fa, le disuguaglianze permangono, retaggio di una cultura segregazionista da cui risulta arduo depurarsi. Neanche i neri si sforzano molto per fare in modo che questa situazione migliori. Le comunità vivono ripiegate su loro stesse. Sì, rivendicano le proprie prerogative, spesso con ferocia, eppure si autoescludono dalla vita politica, dalla cosa pubblica, rinunciando persino al diritto di voto, che in alcune aree i neri esercitano molto meno rispetto ai bianchi. Ma pure allorché votano e si candidano e vengono eletti gli afroamericani riescono a compiere poco per la loro gente. Come accade nella metropoli di Baltimora (Maryland), a maggioranza nera e con neri ai vertici delle istituzioni locali, eppure afflitta da aspre differenze sociali ed economiche tra coloro che hanno la pelle scura e coloro che ce l’hanno chiara. Sembra che gli stessi neri si condannino all’emarginazione, che non siano in grado di emanciparsi da secoli di prigionia che ne hanno represso sogni, aspirazioni, ambizioni. Ciò che li divora è spesso una rabbia atavica, unita ad un desiderio generalizzato ed inestinguibile di vendetta, di rivalsa. Emozioni, agevolmente comprensibili, che esplodono ogni volta che la polizia trucida uno di loro.
Poi termina tutto lì.
Articolo pubblicato su Libero il 3 giugno 2020