Dove diavolo volete che vada un novantenne in carrozzina, dalla salute compromessa, che ha appena perso la donna sposata ben 57 anni fa? Non lo troverete di sicuro a zonzo per le vie del centro, né in giro per i locali notturni, né intento a commettere chissà quali delitti. Sarebbe dunque opportuno lasciarlo in pace, consentendogli di raccogliersi nel suo cupo sconforto, di piangere tutte le lacrime e, se è il caso, di urlare nel cuore della notte la propria afflizione. Il lutto è profondo come un abisso nero nel quale veniamo scaraventati all’improvviso, sia quando la morte di colui o colei che amiamo era evento prevedibile sia quando sopraggiunge come un fulmine a cielo sereno. Ci si accartoccia in se stessi, i ricordi belli e brutti affiorano come lame nella memoria e con essi i laceranti rimorsi e gli ancora più laceranti rimpianti, poiché c’è sempre qualcosa che avremmo voluto dire e non abbiamo detto o qualcosa che avremmo voluto fare e non abbiamo fatto. Non c’è stato il tempo, o non c’è stato il coraggio. Tutto ciò ci perseguita fino alla fine dei nostri giorni. È il nostro castigo.
Quindi, lasciatelo in pace Emilio Fede, per carità. Egli non è che un anziano signore che si ritrova vedovo e spera in cuor suo di spegnersi il più in fretta possibile perché, dopo tanti decenni trascorsi con una persona, allorché questa sparisce, svanisce per sempre anche una parte di noi che non potrà mai più rivivere. Seppelliamo noi stessi insieme a chi ci lascia.
Invece no. L’altra notte, a poche ore di distanza dai funerali della consorte, la giornalista Diana de Feo, deceduta in seguito ad una estenuante malattia a Napoli lo scorso 23 giugno all’età di 84 anni, qualcuno ha bussato alla porta della camera d’albergo in cui riposava (nella maniera in cui può riposare chi ha perduto un proprio congiunto) l’ex direttore del Tg4, il quale ha compiuto 90 anni lo scorso giovedì (24 giugno). Erano le 4 del mattino e Dio solo sa che spavento si sarà preso Fede udendo quel nevrotico sbattere di pugni sulla superficie dell’uscio. Erano le forze dell’ordine che controllavano le autorizzazioni del tribunale di Sorveglianza di Milano in relazione al trasferimento di Emilio Fede a Napoli per il funerale della moglie, dal momento che il giornalista è agli arresti domiciliari per scontare una pena di 4 anni e 7 mesi di reclusione per la vicenda Ruby bis. Gli agenti di polizia si sono trattenuti un’ora in hotel per visionare bene le carte. Intanto Emilio se ne stava lì in pigiama, sveglio, sotto esame.
Perché non attendere il mattino? Per quale ragione ci si è recati d’urgenza nella stanza di un uomo quasi centenario allo scopo di assicurarsi che questi fosse nel suo letto e fosse stato autorizzato a spostarsi da Milano a Napoli per dare l’estremo saluto alla sua amata? Forse che Emilio è un soggetto temibile? Dobbiamo forse credere che egli rappresenti un pericolo pubblico? Peccato che la medesima solerzia non venga impiegata allorché si ha a che fare con individui dalla elevata caratura criminale: stupratori, assassini, mafiosi, malviventi che se ne vanno a piede libero! Dispiace che nell’applicazione intransigente delle regole non si sia tenuto minimamente in considerazione il patimento di questo anziano, il quale non era a Napoli per un viaggio di piacere, bensì per un soggiorno di dolore. E non possiamo fare a meno di domandarci: siamo davanti ad un accanimento nei suoi confronti? Il dubbio è lecito. Non facciamo altro che ciarlare di diritti, diritti dei neri, diritti degli omosessuali. Gli anziani sono una parte fragile della nostra società, eppure li maltrattiamo. Di loro non ci curiamo. E quello che è avvenuto qualche notte addietro a Napoli, ovvero ciò che ha subito Fede, è l’ennesimo episodio che dimostra quanto sia scarso il nostro rispetto verso i vecchi nonché verso il vituperato principio costituzionale della umanità della pena. In poche parole, quanto siamo incivili.