Se duemila anni fa erano necessità, oggi sono inutile scempio. Le scritte sui muri costituiscono una vera rogna per le amministrazioni comunali: rimuoverle è molto costoso, presidiare ogni facciata al fine di scoraggiare teppisti e idioti impossibile, vederle riapparire subito dopo la cancellazione quasi scontato. Agitare la bomboletta di vernice spray per apporre sulla parete pubblica scritte prive di senso e sgrammaticate, qualche scarabocchio, dichiarazioni d’amore, il proprio autografo e roba simile, risulta essere un’irresistibile attività ludica a quanti non hanno mai interiorizzato (e probabilmente mai lo faranno) il senso civico, ossia la consapevolezza che anch’essi sono parte di una comunità fatta di regole che consentono la buona e pacifica convivenza e che ciò che è pubblico, essendo di tutti, appartiene pure a loro, quindi sarebbe opportuno prendersene cura anziché deturparlo. Eppure per i cittadini romani, due millenni fa, era del tutto normale vergare sui muri di strade, esercizi commerciali ed abitazioni private, e non incorrevano in alcun tipo di illecito. Allora la carta non esisteva, o almeno non era così diffusa. Non erano disponibili agende, quaderni, blocknotes, diari, su cui apporre i propri pensieri nonché appunti, appuntamenti e promemoria. Dunque si ricorreva ai graffiti, ai disegni, alle incisioni sulle costruzioni murarie. Era un modo per comunicare con una persona in particolare o con tutti, dato che il messaggio sarebbe stato visibile a chiunque. Oggi invece affiggiamo i nostri comunicati sulla cosiddetta bacheca di Facebook.
Soltanto nella città antica di Pompei sono state riportate alla luce dagli archeologi oltre diecimila scritte di vario genere: dagli spot elettorali per invitare i cittadini a votare per un determinato candidato a frasi boccaccesche, insulti, commenti osceni, informazioni ed elenchi di debiti e debitori. Ne ha proposta una breve raccolta nel suo libro “I tre giorni di Pompei”, edito da Rizzoli (2014), lo scrittore e divulgatore scientifico Alberto Angela, il quale nell’avvincente volume ci accompagna prendendoci per mano lungo i meandri di Pompei ed Ercolano nei tre giorni che precedono l’eruzione del vulcano, avvenuta nell’autunno del 79 d.C.
È uno dei viaggi più affascinanti che la sottoscritta abbia mai fatto, poiché non si tratta solo di andare in luoghi lontani ma anche in tempi remoti, restando comodi e scoprendo via via che gli antichi romani non erano in fondo molto diversi da noi. Le similitudini sorprendono. Come ci hanno stupiti e allo stesso tempo divertiti i graffiti scelti da Alberto e inseriti nel capitolo: “Le parole che non ti ho detto”. Alcuni sembrano cinguettii di Twitter o post di Facebook, gli autori annunciano lieti eventi, come la nascita di una figlia. Ci sono persino tracce di quelle che oggigiorno potrebbero essere considerate delle recensioni negative sui siti che raccolgono opinioni su ristoranti ed alberghi. “Pieni di desiderio siamo venuti qui e assai più volentieri vorremmo andarcene”, “Simili balle, oste, possono costarti caro. Vendi acqua e ti bevi il vino puro”, incidono avventori stizziti sulle pareti di due delle numerose osterie pompeiane. “Mi sono fatto l’ostessa”, rende noto un altro cliente. All’epoca anche le donne si vantavano delle loro conquiste e performance sessuali: “Prima l’ho fatto qui con il suo uomo”, “A Piramo lo succhio ogni giorno”, “Sono stata chiavata qui”, “Qui Euplia lo ha fatto con duemila uomini belli”. Non sono assenti osservazioni tutt’altro che lusinghiere riguardo amanti che hanno deluso tra le lenzuola: “Giocondo scopa male”. Di contro, signore soddisfatte non trascurano di lodare il merito: “Vitalio, sei un gran scopatore”. Alcuni tipi stilavano sulle pareti l’elenco delle persone, di ambi i generi, con cui si erano divertiti. L’omosessualità era diffusa ed accettata. Non scandalizzava nessuno. Non essendoci internet né giornali, sui muri venivano pubblicati annunci in cui si offriva sesso a pagamento, un po’ come accade in età contemporanea nei bagni degli autogrill.
Insomma, c’era tanto da leggere passeggiando tra i vicoli della città. Un dì qualcuno, colpito dalla mole straordinarie di sciocchezze prodotte, scribacchiò: “Mi meraviglio di te, parete, che non sei ancora crollata, perché devi sostenere le cretinate scritte da tutti”. Pure questo contributo denso di sarcasmo è giunto fino a noi.
Poi apprezzamenti: “Matrena ha un bel culo”, “Palmira attizza”. Offese: “Sei un minchione di proporzioni colossali”. Consigli tra mariti: “Stai attento alle mogli”. Avvisi: “Non guardare con occhio lascivo e seduttore le donne degli altri, sulle tue labbra alberghi sempre il pudore”. Citazioni parodistiche: “Canto i lavandai e la civetta, non le armi e l’eroe”. Scioglilingua: “Barbara barbaribus barbabant barbara barbis”, ossia “balbettavano cose barbare sotto le barbare barbe”. Angela chiude il capitolo con le parole di un poeta anonimo, fissate sull’intonaco di una bottega, accanto all’uscio: “Nulla può durare in eterno. Il sole dopo avere brillato si rituffa nell’oceano, decresce la luna che poco fa era piena, la furia dei venti sovente si tramuta in brezza leggera”. Eppure eterno è il bisogno degli esseri umani di lasciare segni del loro passaggio su questa Terra mediante iscrizioni poste ovunque. Del resto, anche i latini sapevano che “verba volant, scripta manent”. Purtroppo.
Articolo pubblicato su Libero del 6 aprile 2019