Il mondo del lavoro sembra essersi spaccato in due: da un lato ci sono i tifosi dello smart-working e delle chiusure, meglio se totali, i quali godono di stipendi garantiti, soprattutto nel settore pubblico, e possono evitare adesso la scocciatura di recarsi in ufficio; dall’altro i lavoratori precari, quelli autonomi, commercianti e imprenditori, ai quali è stato fatto divieto di guadagnarsi il pane con obbligo di sigillatura delle proprie attività. Categorie queste ultime che non possono dunque gioire per il confinamento coatto imposto dall’esecutivo allo scopo di arginare i contagi, in quanto esso produce per loro in maniera immediata disoccupazione, miseria, perdita di entrate, fallimento e tracollo finanziario.

Tuttavia, la visione di chi oggi si dice soddisfatto dal lockdown poiché non ne viene danneggiato, credendo di essere in una botte di ferro, è miope e non tiene conto del fatto che un sistema economico non è un apparato composto da compartimenti stagni, bensì un organismo unico: se metà o buona parte di esso si ammala, anche il resto va in sofferenza. Quindi, se non saremo tutti contagiati o morti di coronavirus, è fuori di dubbio che tutti saremo vittime della crisi economica mondiale nella quale già versiamo ma che pure non è che il preludio di quella che ci travolgerà nei prossimi mesi.

La contrazione dell’economia inciderà sui redditi delle famiglie, la crescita verticale del debito pubblico sarà inevitabile, il tasso di inoccupazione seguiterà a lievitare in particolare per i giovani, che dovranno campare con i genitori, pesando sul bilancio familiare. A patire la recessione sono e saranno soprattutto i nuclei con prole. È vero: i primi a crollare saranno i redditi dei lavoratori autonomi. Tuttavia, anche quelli dei pensionati o dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato, quantunque non diminuiscano, perdono potere d’acquisto, che è la quantità di beni e servizi che può essere comprata con una determinata disponibilità di moneta. Ecco perché nessuno si salverà dal disastro finanziario alle porte.

La contrazione generale dei consumi, che favorisce l’aumento dei depositi bancari (letto superficialmente come un segnale di benessere), non è altro che un meccanismo naturale, sociale e psicologico, che serve individualmente ad autotutelarci dalle difficoltà economiche all’orizzonte. Ma coloro che non hanno più entrate sicure bensì soltanto uscite ineludibili come fanno a risparmiare? I ristoratori, i proprietari di bar, o negozi, o attività commerciali di vario tipo, i quali devono fare fronte a spese incomprimibili, pure quando il governo abbassa loro le saracinesche, come possono resistere e sopravvivere alle limitazioni e ai divieti decretati dall’esecutivo?

Essi saranno i primi a soffrire e pagare. Poi, piano piano, toccherà a tutti. Certo, le disuguaglianze sociale ed economiche, già diventate più acute, si approfondiranno ulteriormente, però in generale ciascuno di noi sarà più povero, a prescindere dalla circostanza che sia munito o meno di un impiego assicurato.

I sostenitori dell’“Italia zona rossa subito”, della quarantena generalizzata e drastica, del ricorso ai provvedimenti duri per contrastare la diffusione del Covid-19, tengano conto di questi aspetti: la paralisi economica prolungata o replicata a singhiozzi non fa bene a nessuno. Essa deprime, impoverisce, incrementa rabbia, violenza e malcontento, tanto più ove l’espropriazione del sacro diritto di lavorare, quantunque avvenga per ragioni di pubblica utilità (salute collettiva), non è accompagnata alla somministrazione contestuale di indennizzi caratterizzati dal requisito dell’equità. Insomma, il governo per nessuna ragione al mondo può vietare o soffocare il lavoro se non è in grado allo stesso tempo di fornire al lavoratore espropriato l’esatto equivalente che questi avrebbe incamerato qualora la sua attività non fosse stata bloccata.

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