È uno schema ormai collaudato: gli italiani vengono incriminati, i clandestini invece santificati. Per i primi esistono soltanto obblighi e divieti, per i secondi soltanto diritti e nessun dovere. Esempio emblematico di questo doppiopesismo sfacciato è quello che è avvenuto in Italia la scorsa estate. Si ritiene che la seconda ondata, esplosa nel mese di ottobre, sia stata provocata dalla irresponsabilità degli abitanti dello stivale, i quali hanno osato incoscientemente divertirsi dopo la lunga fase trascorsa agli arresti domiciliari. Le discoteche sarde sono finite nel mirino di quei politici che avrebbero dovuto, in previsione di una recrudescenza della epidemia, predisporre una serie di interventi che avrebbero reso più sostenibile sul piano sanitario la repentina risalita del numero dei ricoverati. Invece, non soltanto in sei mesi nulla o troppo poco è stato compiuto, ma per di più si cerca il capro espiatorio su cui riversare ogni colpa, che è sempre il popolo italiano.

Dalla narrazione che ci viene proposta, insomma, si desume che se gli italiani non avessero passato qualche serata in discoteca in Sardegna o altrove, adesso non saremmo costretti a stare segregati, a paralizzare l’economia, a vietare il lavoro, a chiudere ogni attività, a ripristinare certificazioni e multe salate a carico di chi si azzarda ad allontanarsi un po’ troppo da casa e senza una valida motivazione. Stronzate!

L’esecutivo parlava di seconda ondata autunnale da mesi e mesi e dunque aveva piena contezza del fatto che avremmo potuto trovarci in questa situazione di emergenza con una quantità elevata di contagiati e pochi posti letto, scarse terapie intensive, carenza di personale medico e infermieristico. Situazione emergenziale che non è stata prodotta da chi ha fatto quattro salti in pista a Porto Cervo. Sarebbe opportuno semmai valutare quanto nella crescita dei contagi abbia influito l’esodo in massa da Paesi alle prese con l’epidemia come la Tunisia e il Bangladesh, con quest’ultimo addirittura il governo aveva interrotto i collegamenti aerei per il rischio elevatissimo di importazione di soggetti infetti, però non i collegamenti clandestini via mare gestiti dai trafficanti di esseri umani.

Veniamo ai dati: solamente tra giugno e settembre sono sbarcati in Italia 18.607 extracomunitari. E quali sono state le due nazionalità più dichiarate al momento dell’arrivo? Proprio quella tunisina e quella bengalese. Alla luce di ciò non stupisce che notevole sia stata la quota dei positivi al coronavirus tra i migranti. Peraltro, alcune condizioni ricorrenti, come la lunga permanenza in spazi ristretti, il barcone prima e l’hotspot dopo, la promiscuità, lo stare ammassati e l’impossibilità di rispettare la regola del distanziamento sociale, non hanno fatto altro che elevare al massimo grado il rischio di infezione. In alcuni centri di accoglienza si è positivizzato pure il personale, che ha portato il virus in famiglia. A ciò si aggiunga un elemento davvero preoccupante: i migranti positivi o in attesa del risultato del tampone, insofferenti all’obbligo di quarantena, quotidianamente nel periodo estivo e pure dopo aggredivano gli agenti di polizia e scappavano in massa dalle strutture disperdendosi sul territorio. È onesto sostenere che tali fughe non abbiano avuto conseguenze mentre le serate in discoteca degli italiani sì?

Il conformismo buonista imperante e intollerante pretende di convincerci che gli immigrati giunti illegalmente sulle nostre coste fuggano tutti dalla guerra, ma non esiste la guerra di Tunisia, o che “il virus non viaggi sui gommoni, bensì in prima classe”, come è stato dichiarato dall’epidemiologo Pierluigi Lo Palco, di recente nominato assessore alla Sanità in Puglia. Tuttavia, nessuno può negare che per mesi abbiamo importato in Italia da Paesi fortemente infetti decine di migliaia di migranti (tra cui pure un terrorista che ha trucidato persone innocenti a Nizza) e che tra queste decine di migliaia di individui che l’hanno fatta da padroni innumerevoli sono stati i casi di positivi.

Il resto è fuffa.

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