Le vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari dal 1991 al 31 dicembre del 2019 sono state 28.893, una media di oltre mille l’anno. Trattenere dietro le sbarre tali individui poi riconosciuti innocenti ha comportato allo Stato una spesa che sfiora il miliardo di euro, precisamente 823.691.326,45 euro. Si tratta di circa 28 milioni e 400 mila euro l’anno (dati raccolti da errorigiudiziari.com).
Purtroppo nel 2019 i casi non sono affatto diminuiti, mantenendo la quota di mille ogni 12 mesi. Lo scorso anno gli indennizzi per ingiusta detenzione, che si configura quando un soggetto viene sottoposto alle misure cautelari in carcere o pure in casa propria (arresti domiciliari) e poi viene dichiarato non colpevole nel corso del procedimento giudiziario, hanno determinato una liquidazione totale pari a 44.894.510 euro. Rispetto al 2018 c’è stato non soltanto un aumento dei casi (+105) ma anche dell’esborso (+33%). Le città in cui è più frequente l’ingiusta detenzione sono: Napoli (129 nel 2019), Reggio Calabria (120), Roma (105), Catanzaro (83), Bari (78), Catania (57), Messina, 45). La spesa risarcitoria complessiva più elevata nel 2019 è stata registrata a Reggio Calabria, quasi 10 milioni di euro. Tanto non paga mai chi sbaglia, bensì noi cittadini.
Queste statistiche evidenziano un dato di fatto: i tribunali tendono ad abusare dello strumento delle misure cautelari, applicandolo probabilmente con una leggerezza esagerata e ingiustificata, e sovente non considerano i danni (che un riscatto economico non potrà mai riparare) derivanti da una reclusione iniqua.
L’ultimo martire (soltanto in ordine di tempo) di questo vizio della Giustizia è un cinquantacinquenne di Agrigento, A.I., di professione netturbino, il quale, dopo oltre un anno di carcere (era stato arrestato il 3 ottobre del 2015) e parecchi mesi trascorsi ai domiciliari con l’accusa infamante di avere abusato sessualmente della figliastra per sette anni (da quando ella aveva 10 anni, oggi ne ha 22), è stato proclamato innocente “perché il fatto non sussiste” prima dal Tribunale di Agrigento (tre anni fa) e ora dalla Corte di appello di Palermo. Una sentenza giunta a cinque anni dall’arresto, periodo di tempo troppo esteso che ha determinato per l’imputato un aggravio della sofferenza. Insomma, la Giustizia non solo è spesso improba ma è altresì lenta e questo contribuisce a renderla ancora più spietata.
I giudici della prima sezione penale di Agrigento nel novembre del 2017 avevano già evidenziato l’insussistenza degli addebiti e dunque l’assoluta innocenza del netturbino, tacciato dalla figlia della sua compagna di averla costretta a ripetuti atti sessuali con la complicità della madre, L.A., 40 anni, la quale, stando al racconto della giovane, non aveva mai impedito le violenze. Tuttavia il sostituto procuratore generale non era d’accordo con i giudici di primo grado: per lui il patrigno della ragazzina era un violentatore, punto e basta, quindi ne aveva chiesto la condanna a 9 anni. Richiesta rigettata dalla Corte d’appello di Palermo, la quale appunto ha confermato il giudizio di primo grado disponendo l’assoluzione dell’imputato.
Eppure il netturbino per cinque anni ha sopportato il giogo di una incriminazione vergognosa e ha vissuto in cella per un anno (finendo poi agli arresti domiciliari per diversi mesi fino all’assoluzione in primo grado) come un comune criminale, per di più da pedofilo, esperendo sulla sua propria pelle la durezza della esistenza all’interno di uno degli istituti di pena italiani, dove il sovraffollamento rende l’ambiente ancora più infernale. E poi sono giunti gli arresti domiciliari, prolungamento di una pena non ancora inflitta e soprattutto mai meritata.
Tenendo conto che, secondo un criterio aritmetico ideato dalla giurisprudenza, la somma indennizzabile per ogni giorno di ingiusta detenzione è di 235,82 euro, l’uomo potrebbe ricevere una ricompensa di 86 mila euro dallo Stato per i 12 mesi in gattabuia, somma a cui bisogna aggiungere quella per i mesi passati detenuto presso il suo domicilio. Si potrebbe quindi pervenire ad un risarcimento complessivo di poco superiore ai 100 mila euro, denari che non possono sanare una ferita che non potrà mai più essere rimarginata.