Sono oltre 100 mila in Italia i giovani che da un dì all’altro scelgono di segregarsi in casa, rigettando ogni contatto diretto con il mondo esterno e talvolta persino con i membri del loro nucleo familiare. Non studiano, non lavorano, non fanno attività fisica, non escono con gli amici per fare compere, per mangiare una pizza o bere un drink, non viaggiano, non hanno rapporti sessuali e non coltivano né sogni né progetti di vita, poiché soffrono di un male che li tiene in ostaggio 24 ore su 24, 365 giorni l’anno: il terrore di confrontarsi con una società che pretende tutto e anche troppo e che non restituisce nulla.
Nel competitivo Giappone, dove il numero di individui che vivono in esilio autodeterminato ha raggiunto la cifra record di un milione e continua a crescere, tale malessere viene identificato con il nome di sindrome di Hikikomori. Tale disagio si manifesta in particolare tra i 14 ed i 25 anni, la maggiore incidenza si registra a 17 anni, come spiega Marco Crepaldi, fondatore e presidente di Hikikomori Italia, associazione che fornisce sopporto sia ai ragazzi che si sigillano nella propria abitazione che ai loro genitori, che si sentono impotenti ed abbandonati.
“Riceviamo continue richieste di aiuto, segno che questo fenomeno si sta diffondendo velocemente anche sul nostro territorio. Sottovalutare l’isolamento sociale volontario sarebbe un grave errore”, spiega Crepaldi. In effetti, gli hikikomori adolescenti di oggi sono destinati a diventare adulti non autosufficienti di domani, privi di autonomia economica, di formazione, di capacità di rendersi utili alla società e soprattutto a loro stessi.
Una problematica che è emersa con prepotenza nel Paese del Sol Levante dove lo Stato, mediante mirate politiche di welfare, si è fatto carico di questo esercito di centinaia di migliaia di quarantenni rimasti soli al mondo dopo la perdita degli anziani genitori, i quali per tutta la vita li hanno supportati materialmente consentendo così a questi soggetti di poter andare avanti senza mettere il naso fuori dall’uscio e senza la necessità di guadagnarsi il pane, o sarebbe più corretto dire “la ciotola di riso”.
Ecco perché è opportuno assicurare ai ragazzi da subito, ossia prima che l’isolamento si cronicizzi, il sostegno di cui hanno bisogno per uscire fuori dalla prigione nella quale si sono rinchiusi gettando via la chiave. Insomma, è indispensabile che gli hikikomori, che di fatto vivono come degli adulti bambini alle cui necessità devono provvedere gli altri, acquisiscano autonomia nonché voglia di andare incontro a quel mondo che sta lì fuori e che a volte fa paura un po’ a tutti. Eppure più spaventoso ancora sarebbe perderselo, ossia rinunciare all’esistenza riducendola a pochi metri quadrati, un computer, una luce artificiale e rischi zero.
“È la pressione sociale la causa principale di tale chiusura. Persino nell’ambiente scolastico il fanciullo può sentirsi caricato di aspettative che ritiene di non poter soddisfare, a ciò si aggiungono le difficoltà nel relazionarsi con compagni e docenti. Ecco che rifugiarsi nella propria cameretta sembra l’unica strada praticabile, al fine di eludere l’ansia da prestazione e non incorrere nel giudizio altrui”, sottolinea Crepaldi, mettendo in luce che sono soprattutto i maschi ad avvertire il peso insostenibile delle richieste da parte della società, che li vorrebbe forti, di successo, disinvolti, belli, vincenti, ricchi, performanti.
“Un altro passaggio critico è il post-diploma, un periodo di intensi cambiamenti in cui è facile che il giovane entri in crisi”, continua il presidente, sottolineando che anche nel Bel Paese non mancano casi di hikikomori over 30.
Ma non chiamateli fannulloni. È il timore del confronto con ciò che sta all’esterno del loro stanzino a condurre codesti individui a vivere come eremiti e non la pigrizia o il desiderio di farsi mantenere dai genitori. E sono proprio questi ultimi a trovarsi nella situazione più drammatica: vorrebbero fare qualcosa per restituire alla vita il figlio che hanno messo al mondo, eppure non possiedono gli strumenti per abbattere quell’impenetrabile muro di silenzio che il giovane hikikomori erige, ostinandosi nel rifiuto di sgusciare dalla sua tana.
Le psicopatologie connesse all’isolamento sono: depressione, fobia sociale, sindromi paranoidi, deliri, alterazioni della realtà nonché dipendenza da internet, dal momento che il web costituisce l’unico strumento che consente di entrare in contatto con l’esterno senza correre il pericolo di mostrarsi o di mettersi in gioco. Nei casi più gravi il ragazzo può arrivare addirittura al suicidio.
La sindrome Hikikomori è anche conseguenza del benessere. Il reddito pro-capite alto dei Paesi più ricchi consente di mantenere la prole inattiva. Decenni fa, nella società rurale, quando i figli venivano concepiti per assicurarsi più braccia nei campi, questo sarebbe stato impossibile. O si lavorava o si moriva di fame.
Tuttavia, padre e madre devono evitare di ricorrere alle misure drastiche nel tentativo di scuotere l’adolescente dal suo torpore, poiché gli esisti di tali iniziative potrebbero rivelarsi fatali. “È consigliato un percorso psicoterapico che coinvolga tutta la famiglia, al fine di ricostruire dinamiche familiari più sane”, illustra Crepaldi, che suggerisce ai genitori di non privare di internet il ragazzo, poiché ciò significherebbe condannarlo alla solitudine. Anche spronarlo a vedere gli amici o uscire può rivelarsi controproducente, meglio invitarlo a fare una passeggiata insieme, senza diventare petulanti.
Colpevolizzare il figlio, farlo sentire giudicato, criticarlo, sono azioni che consolidano la scelta isolazionista, dunque andrebbero evitate. Il dialogo ed un atteggiamento non giudicante rappresentano le scelte migliori. Abbandonare il tunnel dell’Hikikomori è possibile. Se vogliamo il meglio della vita, ci tocca prenderci anche il suo peggio. E, in fondo, essa è straordinaria proprio per questo. Basta un po’ di coraggio.