Rompe il silenzio in cui si è segregata da quando è rientrata in Italia Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e liberata nel maggio di quest’anno. E lo fa attraverso un’intervista rilasciata al giornale online “La Luce”. La giovane chiarisce subito che per lei il velo non è simbolo di sottomissione della donna all’uomo, bensì “un simbolo di libertà” e sarebbe Dio stesso a chiederle di indossarlo “per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima”, specifica Silvia. La ragazza aggiunge: “Per me la libertà è non venire mercificata”. Però a mercificarla, ossia a ridurla allo stato di merce da scambiare e vendere non è stata la minigonna, bensì sono stati proprio i suoi sequestratori, i terroristi islamici il cui credo ella ha sposato.
Romano rivela di sentire su di sé gli occhi della gente allorché se ne va in giro per la città o si trova sui mezzi pubblici. “Credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così”. “L’idea che avevo dell’Islam era sbagliata. Ero una persona ignorante, non conoscevo la religione islamica e giudicavo senza essermi impegnata a conoscere”, prosegue Silvia, la quale ammette che prima del rapimento, quando le capitava di vedere donne con il velo le commiserava.
“Quando fui rapita mi domandai: perché è successo a me? Qual è la mia colpa? Questi quesiti mi hanno avvicinata a Dio. Capivo che c’era un disegno divino. Pensavo che Dio mi stava punendo per i miei peccati, poiché ero lontana anni luce da lui”, dice Romano.
Insomma, la donna è convinta che il suo sequestro sia stato opera di Dio e non di terroristi senza cuore, sanguinari e spietati che le hanno rubato quasi due anni di vita tenendola segregata in Africa, lontana dalla sua famiglia.