Come una soffocante nube tossica l’intolleranza culturale, che si esprime in un conformismo esasperato al pensiero dominante e politicamente corretto nonché nel rifiuto intransigente verso tutto ciò che si discosta dall’idea unica, si sta espandendo sempre di più su tutto l’Occidente “libero”.

Il pluralismo, valore fondamentale della democrazia, sta cedendo il posto ad un appiattimento acritico delle opinioni: sono ammesse soltanto quelle imbevute di perbenismo e buonismo sterili, di facciata. Chi adotta un punto di vista diverso viene escluso dal club, ostracizzato, demolito a livello professionale e sociale, licenziato o costretto a dimettersi.

Non succede soltanto in Italia, dove la sinistra impugna lo scettro di una sua presunta superiorità intellettuale e morale: essa è bella e brava, tutti gli altri sono razzisti, fascisti, mostri, brutti e cattivi. Accade anche negli Stati Uniti, dove oltre 150 intellettuali, provenienti in realtà da tutto il globo, hanno firmato un appello per la tutela della libertà di pensiero, oggi messa in discussione. Si tratta di giornalisti, professori, scrittori, artisti che vivono nel terrore di ritrovarsi senza occupazione per avere osato estrinsecare la propria opinione, distante da quella generale e accettata.

Ma come è nata questa petizione? Nel pieno dei disordini seguiti all’uccisione dell’afroamericano George Floyd, il direttore delle pagine editoriali del New York Times, James Bennett, ha pubblicato un articolo firmato da un senatore repubblicano il quale riteneva opportuno l’intervento dell’esercito per mettere fine alla guerra civile che stava divampando nelle città statunitensi. Dopo questo pezzo, aspramente criticato, Bennett è stato indotto a dimettersi.

Insomma, non solo si è perseguitati per avere detto la propria ma anche per avere consentito a qualcuno di affermare la sua. Questa macellazione della libertà di pensiero e di espressione è tipica delle dittature e non ha nulla a che fare con la democrazia.

Ad ogni modo, la destituzione di Bennett così come l’allontanamento di altri giornalisti, il ritiro dal commercio di libri oggi messi all’indice, l’inquisizione scatenata nei confronti anche di docenti ritenuti colpevoli di avere manifestato una personale visione (come è accaduto in Italia al professore Marco Gervasoni), hanno indotto Mark Lilla, politologo e docente della Columbia University e altri intellettuali a promuovere questa petizione contro la cancellazione della cultura e del libero scambio di informazione e di idee.

La risposta è stata immediata. Vi hanno già aderito 153 intellettuali, di destra e di sinistra, preoccupati per il generale clima di oscurantismo. Segno che l’intelligenza, quando c’è, è trasversale.

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