“Voglio essere libero, voglio volare”, aveva detto alla sua mamma Alessio, 8 anni, affetto dalla sindrome di emiplegia alternante, malattia rarissima di cui si conoscono circa mille casi in tutto il mondo. Essa colpisce il sistema nervoso, provocando un deficit motorio e continue crisi, che insorgono quando il soggetto vive delle emozioni che mandano in corto circuito il suo organismo.

Ad Alessio può fare male salire su una giostra, fare il girotondo, ricevere un abbraccio o un regalo che lo sorprenda, e tutte quelle cose che rendono felici gli altri bambini. Mi parla di lui un imprenditore romano, Andrea Piazzolla, una mattina in cui mi trovo nella capitale per lavoro. Andrea ha ancora negli occhi l’entusiasmo che ha provato qualche giorno prima quando ha organizzato per Alessio un viaggio a Praga dove, all’interno di un tunnel del vento, il bambino ha potuto finalmente realizzare il suo sogno: volare, ossia essere libero dai limiti imposti dal suo male e dalla paura di sentire, di provare emozioni, di vivere.

Stavolta il sistema nervoso del piccolo non si è ribellato, non è andato in tilt mentre Alessio si librava leggero nell’aria, sostenuto dal vento potentissimo, galleggiando e danzando nel vuoto. Anzi, volare ha reso il bimbo più sereno, più felice e ha diminuito la frequenza delle crisi nei giorni successivi. Insomma, un vero e proprio miracolo.

Mentre Andrea mi narra questa storia, penso che la emiplegia, che ti costringe a vivere a bassa intensità per non correre rischi, è rara, mentre molto diffusa è un’altra malattia, quella che ci porta – per nostra scelta – a proteggerci dalle emozioni, a rifiutarle, a dribblarle con un’abilità da campioni, rendendo impermeabile il cuore e vivendo i sentimenti con distacco, perché sentire può spezzarci il cuore. Ne sono affetta anche io.

“Mi piacerebbe volare”, sospiro, mentre ascolto questa storia. E in un baleno mi ritrovo in un centro di paracadutismo, Crazy Fly, a Nettuno, Roma. È una splendida giornata, nel cielo azzurro non c’è neanche una nuvola. Sono scesa dal treno proveniente da Milano da appena un’ora e mi trovo infilata dentro una tuta rossa, pronta a lanciarmi nel nulla da 4000 metri di altezza.

“Questa è la prova che sei pazza”, dico a me stessa. Prendo coscienza di ciò che sto per fare quando il mio istruttore, Enzo, al quale resterò legata durante il volo – almeno spero -, mi sistema l’imbracatura. Con me volerà anche Andrea, per darmi coraggio. Quando stiamo per salire sull’aeroplano dal quale ci butteremo giù in caduta libera, mi chiedono se preferisca saltare prima io o che lo faccia per primo Andrea. Mentre penso che la cosa che davvero gradirei sarebbe togliermi di dosso ferri, corde, tuta e andare via, decido senza convinzione: “Meglio che si butti prima lui”.

Non so cosa mi spaventi davvero: forse ho paura di schiantarmi a terra, che non si apra il paracadute, incluso quello di emergenza, in fondo, a qualcuno è successo, non sarei la prima; ho paura dell’altezza, 4000 metri sono tanti, cerco di immaginarli, non ci riesco; di svenire, di spezzarmi una gamba, magari due, di non potermi più muovere, che stupida sarei! Di lasciarmi andare, di sentire il vento così forte da togliermi il respiro, di scivolare, di non avere nulla a cui aggrapparmi, un appiglio, un sostegno, una scusa valida almeno con me stessa per non cadere.

“No, non posso”, e intanto abbiamo già preso il volo. Tutto diventa sempre più piccolo, mentre l’orizzonte si allarga. Gli istruttori, il pilota, sono tutti allegri intorno a me. Mi sembra di conoscerli da una vita, invece sono solo pochi minuti ed io ho consegnato la mia esistenza nelle loro mani. “No, guarda, Azzurra, adesso è certo davvero: sei gravemente pazza!”, mi dico.

Davanti a me c’è Andrea. Anche lui sorride. È sereno come il cielo. Mentre lo guardo, mi chiedo se lo renda più felice volare o fare volare chi non lo ha fatto mai. Non c’è più tempo per le domande, siamo quasi a quota 4000, Gianfranco, un istruttore, mette la mano sullo sportellino, capisco che ha intenzione di aprirlo, penso che potrei sganciarmi, ora o mai più, ritornare giù con il pilota, dichiarare a tutti la resa: “Ragazzi, non me la sento. Sto male”. Ma che vigliacca sarei! Non potrei mai più perdonarmelo. Resto muta, intanto Enzo stringe ancora di più l’imbracatura tanto che non riesco a muovermi. “È troppo!”, gli dico.

C’è un unico modo per arrivare giù ed è buttarsi. Adesso lo sportello è spalancato. Andrea mi saluta, mi sorride ancora. Non vede l’ora di lanciarsi. “Speriamo che non ci stiamo scambiando l’estremo saluto”, penso. Neanche un attimo dopo tocca a me. L’istruttore mi raccomanda di respirare. Capisco subito perché: l’aria c’è, anche troppa, ma il panico può paralizzarti. Riesco a gestire questo turbinio interiore che va a massima velocità, stupendomi di me stessa.

Sento il vuoto sotto i miei piedi, sono appiccicata ad un altro essere umano, che è attaccato ad un aeroplano. Poi giù. Allora questo è volare. Precipito a 200 km orari eppure mi sembra di stare ferma. La mia mania del controllo mi fa perdere il controllo delle mie gambe, vorrei spostarmi, muovermi, nuotare nell’aria. Ma posso solo lasciarmi trasportare. All’improvviso il paracadute si apre, penso: “Grazie a Dio!”. E passo da una posizione orizzontale ad una verticale. Tutto diventa più tranquillo. Mi sembra di essere sospesa tra cielo e terra, che qualcosa di potente ed invisibile mi sorregga con amore.

Mi gira la testa quando mi accorgo che non ho proprio nulla sotto i miei piedi, li guardo e vedo un mondo lontano e piccolissimo che sta laggiù. Enzo mi fa da Cicerone nei cieli, mi indica il mare, i boschi, le montagne, la città. È un privilegio osservare la realtà da qui.

Il volo dura pochi minuti, di cui uno in caduta libera, eppure sembra infinito, hai percezione degli attimi che passano, li vivi tutti pienamente, frazione dopo frazione. E non li dimenticherai mai più. Volare non è rischiare di morire. Bensì tentare di vivere.

“Sei proprio coraggiosa”, osserva Andrea. Mi sento più forte che mai.

Ci ho messo un po’ a riprendermi da quel vortice di sensazioni una volta toccato il suolo. Perché le emozioni sono così potenti che ti sconvolgono. Possono ucciderti. Ma ti fanno vivere.

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