“Ero stanca di fingere, da tutta la vita ero stata costretta a recitare la parte dell’uomo, per non offendere nessuno, ma nella mia anima ero nata donna”.

Il desiderio più nobile che si possa nutrire: quello di essere autentica. È questo ciò che sta alla base della scelta di Serena, (nome di fantasia) 40 anni circa, di ricorrere all’operazione di cambio del sesso 17 anni fa in una clinica pubblica del nord Italia, rassicurata dal suo medico verso il quale nutriva stima e fiducia.

Il risultato: una vagina di qualche centimetro, nonché – fatto preoccupante – un problema di minzione, che provocava a Serena forti dolori nel fare la pipì, tanto da richiedere un secondo intervento, eseguito nello stesso ospedale, durante il quale su scelta della paziente, incentivata dallo stesso medico, si intervenì per la correzione delle dimensioni insufficienti della neo-vagina.

Decisione che ha cambiato in modo irreversibile la vita di Serena che oggi non solo non può avere rapporti sessuali di alcun tipo a causa della chiusura totale, per formazione cicatriziale, della vagina e dell’ano, ma è costretta ad andare in giro con una sacca esterna, collegata al suo intestino, che l’ha resa ufficialmente “portatrice di handicap”.

Una mutilazione costata ben 12 mila euro, pagati da Serena su consiglio del medico al fine di accorciare i tempi ed essere operata subito anziché aspettare dai sei mesi ai tre anni qualora l’intervento fosse stato coperto dal servizio sanitario nazionale.

Una donna attiva che amava scalare le montagne nel tempo libero, imprenditrice di notevole successo, scrittrice, atleta a livello agonistico. Serena ha dovuto rinunciare a tutto a causa della seconda operazione, che ha reso necessari più o meno altri 13 interventi (eseguiti nel giro di pochi mesi), il primo del quale fu effettuato d’urgenza per salvarle la vita.

“Non credevo che sarei uscita viva dalla sala operatoria, i medici erano scettici al riguardo, così prima di entrare feci testamento. Se solo mi avessero prestato ascolto quando lamentavo quei laceranti dolori all’addome e chiedevo un esame di approfondimento, probabilmente le conseguenze non sarebbero state queste”, ci racconta Serena.

Ogni tanto viene interrotta dai rumori prodotti dalla sacca che tiene sulla pancia. Sebbene ormai da tre anni viva così, è sempre nuovo l’imbarazzo che produce in lei. Ed il dolore si rinnova. Ed è stato questo a costringerla a rinunciare al rapporto diretto con il pubblico, ridimensionando la sua attività con gravi perdite economiche.

Stupisce che Serena non provi risentimento verso quei medici che le hanno rovinato la vita e che ora declinano ogni tipo di responsabilità. Se ne sono lavati le mani molto bene, come si usa fare prima di entrare in sala operatoria. Ma a tutto discapito di Serena, che, non essendosi vista riconoscere i danni riportati né dalla clinica né dai medici nel corso di un tentativo di conciliazione, ha deciso di agire in sede sia civile che penale, aprendo un iter giudiziario che ha visto indagati ben dodici medici e tuttora aperto.

“Sfortuna”, secondo i medici che l’hanno operata è stata questa la causa di tutti i danni irreversibili riportati da Serena in seguito alle operazione subite.

Inevitabile sentirsi beffati e desiderare ancora una volta verità: in questo caso, giustizia.

Un desiderio che deve fare i conti con la realtà ed in particolare con quel clima di generale omertà che domina le corsie e che crea riluttanza da parte di un medico nel giudicare l’operato di un collega. Ma ci si chiede se si possa arrivare fino al punto di negare l’evidenza. Una donna và in giro con un ano artificiale sulla pancia, una sacca rumorosa che è costretta a svuotare, pulire e cambiare diverse volte durante il giorno, non può più fare sport, vive con addosso il pannolino a causa dell’incontinenza causata probabilmente dall’elevato numero di interventi subiti, ha rischiato di morire ed è stata ricoverata in rianimazione, non può avere rapporti sessuali, ha perso ogni speranza. Dobbiamo dare tutta la colpa al fato?

“Non ce l’avrei mai fatta senza il sostegno dei miei genitori e del mio compagno, che mi è stato vicino in questi quattro anni condividendo con me questo calvario. A loro devo tutto”, conclude Serena.

Articolo pubblicato su Libero il 28 ottobre del 2016

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